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Il Virus del Superbonus – Lavori Pubblici

Incipit “spirituale”. Nel mio studio c’è aria
di rinnovamento! Dopo un lungo periodo di incertezze, di
autocertificazioni giustificative, di traslochi improvvisati
studio-casa e casa-studio, di mascherine filtranti, gel
disinfettanti, termometri, quarantene, vaccini, distanziamenti
sociali e bollettini medici, sembra che il popolo abbia imparato la
lezione, attuando le direttive impartite dal governo e dalle
regioni, con relativa prontezza e capacità di adattamento.

Al di fuori delle lectio magistralis degli esperti in
materia, i veri elementi di riflessione – quelli che hanno smosso
le coscienze, ponderando accuratamente le variabili in gioco – sono
stati i continui cambi di giudizio sul reale pericolo del nuovo
virus, con i conseguenti aggiustamenti delle norme e dei protocolli
di attuazione. Illustri personaggi politici, ancorché accuratamente
protetti e garantiti, sono stati anch’essi infettati dal virus,
presagendo così la ricerca dell’immunità nel “gregge” della specie
umana, riportando in auge la teoria darwiniana e le risoluzioni
spartane di antica memoria.

Sembra di rivedere scene già vissute; riaffiorano eventi lontani
nel tempo: le epidemie, le pesti e le carestie del passato, la
condizione umana miseramente appesa al filo della speranza. Ci si
affida alle persone di scienza, ai dottori, ai sociologi, agli
economisti ed agli esperti di ogni ordine e grado. Nell’era
contemporanea, come per le pesti del passato, si torna ad indossare
la mascherina, a coprirsi il naso e la bocca con un “panno” o con
uno schermo di plastica, all’isolamento e alla quarantena; l’uomo
ritorna alla natura, si avviluppa su se stesso, si allontana dal
gruppo e si rifugia nella sua “tana”, in attesa che tutto passi e
che possa ritornare alla normalità della suoi giorni. Nel contempo
si inventano nuovi modelli sociali; per esorcizzare, anche
solamente nell’idea, la naturale sensazione di regressione, si
giunge a rinnegare la nostra storia, le nostre tradizioni e persino
la nostra lingua: una “Babele” al rovescio che condanna ogni
diversità, un inno all’uguaglianza, all’ubbidienza istituzionale,
al rispetto delle regole. Siamo sommersi da vocaboli di origine
straniera, coniati per l’occasione, per restare comunque dentro la
nostra contemporaneità: lockdown per chiusura,
triage per smistamento, smart working per
telelavoro, meeting per riunione, e molti altri termini
che, scimmiottando le lingue straniere, finiscono solamente per
mortificare la nostra lingua e la nostra cultura.

Durante la chiusura dell’intero Paese e, recentemente, delle
varie Regioni, sono state intraprese delle scelte difficili, come
quella di stabilire, con decreti ad hoc, quali attività di lavoro
siano da ritenere “essenziali” rispetto a quelle non strettamente
necessarie, almeno nel breve e nel medio periodo. Per le attività
ritenute essenziali sono state inoltre stabilite delle regole
specifiche per limitare la diffusione del virus e per garantire
comunque l’espletamento dei servizi pubblici e sociali. Gli
ospedali, le forze dell’ordine, alcuni esercizi commerciali ed
altre attività essenziali sono state “in trincea”, lasciando tutti
gli altri lavoratori a casa, molti di questi in smart
working!
Tra le attività ritenute essenziali ci sono
anche i liberi professionisti – tra i quali anche noi, del settore
tecnico – gli unici ai quali non è stato imposto alcun obbligo di
chiusura, gli unici che possono scegliere se lavorare nel loro
studio, a casa o dentro la propria automobile, gli unici ai quali
viene consentito di lavorare liberamente anche se tutto il resto,
intorno a loro, è ibernato, con molti cantieri ed uffici pubblici
ancora chiusi per decreto, con la vigliacca disponibilità
alternativa di numeri telefonici ed indirizzi e-mail dai quali non
si riceve alcuna risposta
; nessuno ha pensato di deviare
le chiamate, anche solamente negli orari di ufficio, ai lavoratori
smart! Nessuno ha cercato di onorare il proprio stipendio
per rendere un servizio pubblico! Nessuno! E così, ahimè,
il settore della Pubblica Amministrazione arranca con
fatica, continua anche oggi ad evadere dagli impegni istituzionali
senza alcun rimorso e senza orgoglio, generando così un divario
sociale ed economico non più sostenibile.
Gli alibi per
non fare nulla, o per non fare abbastanza, sono molteplici; i
contratti collettivi nazionali di lavoro, stipulati in tempi di
“pace”, si dimostrano inadeguati per la “guerra” che dobbiamo
combattere, tutti insieme, per l’unico obiettivo comune, quello di
salvare il salvabile, ciascuno con il suo ruolo, ciascuno nella sua
“trincea”.

Il Lavoro esige Rispetto

Il lungo incipit di questo scritto – che a molti potrà
sembrare inutile e prolisso, o addirittura fuori luogo – ha l’unico
scopo di preparare “spiritualmente” il lettore distratto e di
coinvolgerlo empaticamente nella lettura di un testo che può essere
giudicato noioso, in quanto non genericamente riscontrabile nei
consueti interessi personali. Chiudiamo così la parentesi
introduttiva e veniamo al dunque: cercherò anzitutto di evidenziare
alcune contraddizioni relative al rispetto delle attività umane –
di qualsiasi natura esse siano – e alle funzioni sociali (ruoli)
che ciascuno di noi è chiamato a svolgere a garanzia del suo
diritto, quello del lavoro. La discussione si svolgerà nell’ambito
delle professioni cosiddette tecniche – ambito al quale anch’io
appartengo, e in cui sono titolato ad esprimermi liberamente e con
senso critico – mettendo in rilievo alcune incongruenze, da sempre
esistenti, che si sono rese evidenti già dai primi momenti di
elaborazione del cosiddetto “Superbonus 110%”, relative al rispetto
del diritto dei lavoratori, così come disciplinato dalla nostra
Costituzione.

In particolare, la Costituzione Italiana, nei suoi “Principi
fondamentali” (articolo 4), recita:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al
lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo
diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie
possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che
concorra al progresso materiale o spirituale della
società».

La Costituzione, tra i “Diritti e doveri dei cittadini”,
disciplina i diritti dei lavoratori; in particolare l’art. 36
recita:

«Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata
alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente
ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e
dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla
legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali
retribuite, e non può rinunziarvi».

La nostra costituzione, nello spirito di libertà e di rispetto
di ciascun lavoratore, con un giudizio riportato all’attualità,
sembra comunque aver riservato un ruolo prioritario ai lavoratori
subordinati; con tutti i naturali e necessari distinguo, i
lavoratori autonomi sono stati bistrattati già all’origine della
nostra “moderna” società, e tutto l’apparato di tutela dei
lavoratori è stato concepito ed è stato implementato con questa
ingiusta logica. Possiamo comprendere il perché ciò sia avvenuto,
regredendo nel tempo e tornando allo spirito che caratterizzava la
società di allora e i nostri “padri costituenti”; non dobbiamo
tuttavia giustificare tutto quello che è avvenuto dopo e che
rappresenta la nostra storia recente.

Torniamo a noi, ai lavoratori tecnici, alla nostra
contemporaneità e alla nostra materia di discussione, in questo
caso scevra, per facilità di comunicazione, da ogni aspetto di
natura spirituale.

Ci siamo inventati il termine “professione” per rivendicare
un’autonomia, una diversità e un distacco dei ruoli, dei diritti e
dei doveri; in realtà anche noi “professionisti” siamo dei
lavoratori come tutti gli altri (“stiamo nella stessa barca”), e
dovremmo avere condizioni analoghe di considerazione e di tutela,
in alternativa al “riposo settimanale” e alle “ferie annuali
retribuite”.

Come già detto, in questo lungo e difficile anno, oramai
trascorso, noi tecnici professionisti siamo stati lasciati
“liberi”. Le nostre attività professionali sono state incluse tra
quelle essenziali; insieme agli operatori delle forze dell’ordine,
a quelli della sanità e del settore alimentare, c’eravamo anche
noi! Che responsabilità, e che onore! Nessuna interruzione, nessun
disturbo, tanta calma, strade sgombre e “parcheggio” assicurato.
Mentre gli altri lavoratori iniziavano la sperimentazione del
lavoro Smart, anche le imprese di costruzioni sono state
“liberate” per farci sentire meno soli e per solidarietà di
intenti. Per noi, le uniche restrizioni sono state rappresentate
dal dovere di portarci appresso l’autocertificazione sempre
aggiornata, come giustificazione dei nostri spostamenti. Nella
realtà quotidiana, le nostre attività di lavoro – le professioni
tecniche – si sono rivelate entità amorfe, emarginate ed
energivore, efficienti soprattutto per la produzione di spesa:
lavori pubblici ibernati, gare d’appalto sospese, edilizia privata
rigettata al mittente per latitanza del personale addetto al
controllo e all’approvazione delle istanze di autorizzazione,
centralini telefonici che non rispondono, che avvisano gli utenti a
rivolgersi altrove, con altre forme di contatto, con e-mail
impersonali e spesso inefficaci. Naturalmente, non tutto il settore
pubblico pecca di inefficienza; la “piega” che è stata seguita si è
dimostrata comunque errata, sia negli intenti di chi l’ha imposta
con forza, sia nei risultati finora conseguiti.

Un insospettabile, quanto autorevole esponente politico ed
esperto del diritto del lavoro, il Professore Pietro Ichino, per il
tramite della stampa e del suo sito internet, ha messo alla luce le
criticità e le contraddizioni del Lavoro Agile (Smart),
così come viene oggi concepito ed attuato nel nostro Paese; viene
sottolineato il fatto che «tutta la sua “agilità” rischia di
perdersi se essa viene fagocitata dal business della burocrazia
giuslavoristica, incominciando così a essere appesantita da regole,
verbalizzazioni, scartoffie e ricorsi […] Uno smart work promosso
in questo modo non ha evidentemente più niente di smart: nasce con
un imprinting contenzioso, quindi senza alcun rapporto di fiducia
tra le parti, come una sorta di esonero parziale per persone che
hanno dei problemi invece che come evoluzione organizzativa guidata
dalle persone più motivate e professionalmente attrezzate
».

Secondo il Professor Ichino lo smart working per i dipendenti
pubblici è una «vacanza retribuita al 100%»; egli ha
inoltre dichiarato: «Si sarebbe potuto estendere al pubblico il
trattamento di integrazione salariale, cioè la cassa integrazione
che per i dipendenti pubblici non esiste, visto che il datore di
lavoro è lo Stato, e destinare il risparmio ad altri settori. Si
potevano premiare medici e infermieri in prima linea, oppure
fornire pc agli insegnanti, costretti a fare la didattica a
distanza con mezzi propri. Sarebbe utile se il ministero della
Pubblica Amministrazione fornisse almeno un quadro attendibile di
quanti dipendenti pubblici si sono davvero attivati per
fare smart working e quanti no».

Le dichiarazioni del Professor Ichino, come tutte le voci fuori
dal coro e dalle anacronistiche ideologie politiche, non sono state
adeguatamente considerate, né per realismo né per demagogia. Al di
fuori del Professor Ichino, e di pochi altri, nessuno propone nulla
di concreto – neanche con analisi di giudizio – per analizzare e
risolvere il problema del pubblico impiego ai tempi della pandemia.
Si sta “sul pezzo” con lo Smart Working per apparire moderni,
quando, nella realtà dei fatti, rimane sempre valida la celebre
frase dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «Perché
tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Anche se può sembrare scontato, a scanso di equivoci, occorre
comunque ribadire che non esistono lavori – e lavoratori –
importanti ed altri meno importanti. Il lavoro è un complesso di
azioni tra loro correlate e complementari l’una rispetto all’altra;
come si suol dire: «Tutti siamo utili, nessuno
è indispensabile».
I lavoratori del pubblico impiego, i
lavoratori del settore privato e i lavoratori autonomi, sono
strettamente correlati, e si trovano oggi in un precario equilibrio
che mostra tutti i sui limiti.

Per quanto riguarda la nostra posizione – quella dei
professionisti tecnici – non possiamo che constatare lo stato dei
fatti e rassegnarci, nostro malgrado, ad essere considerati
lavoratori di secondo livello; non solo i dipendenti pubblici non
vanno in cassa integrazione, come vorrebbe il Professor Ichino, ma
qualcuno ha pensato bene, in questo periodo di confusione e di
magra economica, anche di aumentare il loro stipendio, in occasione
del canonico rinnovo dei Contratti Collettivi Nazionali di
Lavoro.

La verità, secondo il mio parere, è una sola, ed è questa: il
mondo si è evoluto, nel bene e nel male, verso un’assurda
globalizzazione, mentre il nostro Paese sta ancora alla finestra ad
osservare i cadaveri che passano (il nostro sistema
politico-sociale, le nostre industrie, le nostre istituzioni, ecc.
), scavandosi un fossato per una comune sepoltura; tutto questo per
fierezza di posizione, per non voler rimodulare le promesse
storiche, quelle dei nostri antenati, dei guelfi bianchi e neri,
dei fascisti e dei partigiani. Difendere e salvaguardare la nostra
memoria storica è certamente importante, ma non può essere un
fardello che ci porterà a soccombere. Nella comune memoria, anche
il nostro inno nazionale implora un sacrificio, uno scatto di
orgoglio! L’Italia deve destarsi ancora e stare in prima linea, per
combattere la sua battaglia e per tornare a vincere.

D’altra parte, c’è da fare un’ulteriore osservazione a difesa
relativa della causa del pubblico impiego, in rapporto alle
evidenti contraddizioni politiche; come ho già scritto in altre
occasioni, nessun politico di alto rango ha pensato di ridursi
veramente lo stipendio per contribuire fattivamente alla causa
comune del Paese! Troviamo giustificazioni assurde, che all’azione
(volontà potenziale di diminuzione dello stipendio) contrappongono
una reazione ininfluente per la riduzione della spesa pubblica.
Basterebbe solamente il gesto collettivo, di molti facoltosi
politici, che fornisca il buon esempio, anche senza l’auspicata
riduzione della spesa pubblica, per rasserenare le nostre menti e
per guadagnarsi un po’ di rispetto.

Per dovere, e per completezza, occorre fare un’ultima
riflessione che riguarda l’ambigua figura del dipendente pubblico
che svolge anche la libera professione. Il tecnico professionista
“amorfo” è l’unico, nel panorama delle libere professioni, ad
essere un po’ tutelato; il suo stipendio – sicuro e garantito,
ancorché in alcuni casi anche guadagnato – rappresenta un equo
surrogato della “cassa integrazione”, che compensa i mancati utili
di una professione ritenuta libera dallo stato, che oggi è in
perdita per mancanza di attenzione e di terreno fertile.

In conclusione, per superare la crisi – nel senso più ampio del
termine – occorre adeguarsi ai tempi che cambiano, rimodulando
gradualmente il sistema del lavoro, dei suoi diritti e dei suoi
doveri, in difesa di tutti i lavoratori, della nostra storia e
della nostra costituzione. D’altra parte, fronteggiare l’attuale
crisi economica con algoritmi sperimentali, che non tengono conto
delle condizioni del mondo reale e del sistema organizzativo del
lavoro, è deleterio per il nostro benessere, è un grave oltraggio
alla nostra dignità. Da sempre la crisi si affronta con elasticità,
con possibilità multiple di partecipazione, lasciando a ciascuno la
libertà di scegliere le modalità per affrontare i problemi,
ripartendo le risorse in maniera capillare, nei rispettivi
territori e con le strutture organizzative già presenti (imprese e
stabilimenti di produzione nazionali), senza velleità di
globalizzazione e di esternalizzazione dell’approvvigionamento dei
materiali e della manodopera, così come invece è stato scelto di
fare. La promessa che lo stato ha fatto – quella di ristrutturare
le case gratis a tutti – si scontra con la realtà, con noi, tecnici
professionisti, che facciamo riunioni ogni giorno, che veniamo
contattati al telefono in qualsiasi ora della giornata per
pianificare gli interventi, con “google” che brulica di richieste
di informazioni sul Superbonus, che vengono riportate a noi come un
elenco di proposte, di confusione e di incertezza; noi tecnici ci
siamo trasformati in docenti del Superbonus, dispensiamo consigli,
cerchiamo di calare nella realtà attuativa quello che i veri
“docenti” della materia hanno concepito a nostro discapito, senza
tenere conto della crisi economica, del tessuto edilizio, della
normativa disorganica, contrastante ed anacronistica, delle
speculazioni che si stanno palesando per difficoltà di
approvvigionamento dei materiali e della manodopera (l’Italia
importa oramai tutto), della contrazione dei tempi previsti
(scadenza del Superbonus) per l’esecuzione completa dei lavori e
per l’espletamento delle pratiche burocratiche (elaborazione degli
stati di avanzamento dei lavori, caricamento della documentazione,
assurda e ridondante, sulle piattaforme telematiche dell’Agenzia
delle Entrate e dell’Enea, rapporti multipli con i commercialisti
per i visti di conformità, rapporti multipli con gli istituti
finanziari per la gestione telematica delle cessioni di credito,
ecc.); se illustriamo ad un bravo tecnico svizzero l’attuale
modello del Superbonus, dice che siamo dei pazzi scatenati!

Un modo alternativo per gestire questi lavori, specialmente per
i condomini, rimane quello di delegare il tutto a società ben
strutturate che, con i loro General Contractor (factotum senza
scrupoli), con i loro tecnici (orbi compiacenti) e con la loro
disponibilità finanziaria (liquidità), riescono a superare gli
scogli burocratici e legali senza troppi problemi; insomma, “occhio
non vede e cuore non duole”, tanto ci sono i loro avvocati, pronti
a difendere la società, sempre che sia ancora presente nello
scenario dei futuri controlli. In altre parole, l’attuale sistema
del Superbonus, qualora non si corra prontamente ai ripari,
trasformerà il settore dell’edilizia, diffusamente presente nel
nostro territorio (imprese, fornitori, ecc.), in un sistema
polarizzato e globale, in una sorta di AMmaZzon dell’edilizia, nel
boia della nostra economia. Rivolgo pertanto un appello ai nostri
politici, ministri, sottosegretari e dirigenti: invertiamo la
rotta, finché siamo in tempo, l’energia che manca dobbiamo
ricercarla nelle nostre menti, la vera risorsa disponibile e
veramente rinnovabile.

Il modello economico-finanziario del Superbonus

Con l’emanazione del Decreto Legge 18 maggio 2020, n. 34 –
cosiddetto “Decreto Rilancio” – recante “Misure urgenti in
materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di
politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da
COVID-19”
, convertito nella Legge
17 luglio 2020 n. 77
, è stato introdotta un’agevolazione
fiscale, cosiddetta “Superbonus”, consistente nella possibilità di
detrarre dalle imposte dovute dal contribuente (committente dei
lavori) il 110% delle spese sostenute per gli interventi di
efficientamento energetico e di riduzione del rischio sismico dei
propri edifici, con la possibilità di trasformare le suddette
detrazioni in un credito d’imposta cedibile a terzi. Il Decreto
Rilancio prevede, inoltre, la possibilità di trasformare in credito
d’imposta cedibile anche le detrazioni fiscali del 50% relative ai
lavori di ristrutturazione edilizia, per manutenzione ordinaria o
straordinaria, finalizzate al recupero del patrimonio edilizio,
nonché altri interventi di diversa natura.

Il Superbonus può essere utilizzato dal beneficiario, secondo
tre modalità alternative:

  • Mediante compensazione dei propri debiti fiscali su più quote
    annuali;
  • Mediante “Sconto in fattura” operato dall’esecutore dei lavori
    (Impresa);
  • Mediante “Cessione del credito di imposta”.

Nel caso di sconto in fattura, il credito di imposta scaturisce
da uno sconto sull’importo della fattura emessa dal fornitore. Lo
sconto può arrivare fino ad un massimo del 100% dell’ammontare da
corrispondere. Il credito maturato dal fornitore è pari al 110%
dell’importo dello sconto; l’importo eccedente tale credito, sempre
incrementato del 10%, spetta invece al beneficiario, il quale può
portarlo in detrazione ovvero può cederlo a terzi.

Nel caso di cessione del credito di imposta, il beneficiario
liquida le fatture al fornitore, trasformando la detrazione di
imposta in un credito che viene ceduto ad un terzo, ovvero ad una
banca, ad un ente di assicurazione o ad un intermediario
finanziario. La cessione del credito viene attuata al fine di
ottenere “subito” la liquidità necessaria per il pagamento delle
spese (i tempi sono in realtà incerti e molto lunghi), in
alternativa ad un recupero diretto del beneficio fiscale sulla
propria dichiarazione dei redditi nei successivi cinque anni.

Per operare la cessione del credito d’imposta è indispensabile
aver pagato le fatture che hanno generato la spesa, in occasione
dell’emissione dei rispettivi Stati di Avanzamento Lavori (S.A.L.);
la normativa prevede un primo S.A.L. al raggiungimento di almeno il
30 % delle spese, un secondo S.A.L. è previsto al raggiungimento di
almeno il 60% delle spese e il S.A.L. finale alla conclusione dei
lavori. Si parla impropriamente di Stato di Avanzamento dei LAVORI,
quando invece si dovrebbe parlare di S.A.S. – Stato di Avanzamento
delle SPESE: questo aspetto, trascritto nella modulistica ufficiale
di asseverazione, sta creando problemi interpretativi finora non
chiariti, con conseguenti errori e rallentamenti per il rilascio
del visto di conformità.

Come si può comprendere, le agevolazioni fiscali del Superbonus
teorizzano la funzione di trasformare i crediti d’imposta in una
sorta di moneta virtuale, che può essere utilizzata dagli operatori
coinvolti (persone fisiche, condomìni, imprese esecutrici, ecc.)
come mezzo di pagamento di beni e servizi, immettendo capacità
finanziaria nel sistema economico senza incremento del debito
pubblico (?), coinvolgendo gli operatori interessati a questo
business, ovvero le banche, le assicurazioni e i grandi
gruppi aziendali, che hanno una notevole disponibilità (capienza)
fiscale. A tale scopo è stata creata un’apposita piattaforma
telematica, gestita dall’Agenzia delle Entrate, che dovrebbe
occuparsi della certificazione e della gestione dei crediti
d’imposta.

Il procedimento tecnico-amministrativo del Superbonus prevede le
seguenti figure: tecnici progettisti, direttori dei lavori,
coordinatori per la sicurezza, tecnici commercialisti, imprese
esecutrici, istituti intermediari e finanziari; c’è, inoltre, la
figura ambigua del cosiddetto General Contractor
(traduzione: Contraente Generale) che prepotentemente sta cercando
di farsi spazio per avere anch’egli un utile riconoscimento.
Essendo i lavori concepiti secondo un criterio gerarchico
(interventi di riduzione del rischio sismico ed interventi di
efficientamento energetico, interventi trainanti e interventi
trainati), subordinati al rispetto di diversi ambiti normativi, si
sono venuti a creare dei conflitti di correlazione per la loro
attuazione pratica. Nel nostro apparato normativo convivono i regi
decreti (per taluni aspetti sono anche le norme migliori), le norme
della Repubblica e quelle europee; si può comprendere, in funzione
anche della nostra cultura antropologia, quali siano le difficoltà
di attuazione di un complesso eterogeneo di norme nella nostra
comunità sociale. Non possiamo, dall’oggi al domani, trasformarci
in tedeschi o in svizzeri, così come non possiamo modificare
radicalmente la nostra struttura mentale per attuare linearmente
ciò che si vuole.

Il Superbonus è piombato dall’alto come un meteorite impazzito,
provocando uno tsunami che non sappiamo ancora dominare. Urge un
intervento radicale per non trasformare quella che da tutti è
riconosciuta come un opportunità di ripresa e di crescita in un
pasto saporito per sciacalli senza scrupoli. Finora l’annuncio del
“tutto gratis” del Superbonus ha creato solamente un blocco delle
attività edilizie, in attesa di chiarimenti e modifiche per una
concreta attuazione pratica.

Gli istituti finanziari, che dovrebbero fare la loro parte, in
attesa di maggiori certezze, aspettano il momento giusto (le
riforme del Recovery Plan ?); per adesso dettano
solamente le regole che sono le medesime di sempre: si consente,
con richieste documentali assurde e ridondanti, l’accesso
centellinato a prestiti ponte, con garanzie multiple di liquidità
da parte dei cittadini “beneficiari” (esistenza di conti correnti
sufficientemente pingui di denaro) e tassi di interesse certamente
non agevolati. Sono state adottate delle procedure di
pre-istruttoria – che sono gestite da società partners degli
istituti finanziari, per il tramite di piattaforme telematiche –
per la validazione dei procedimenti tecnico-amministrativi, ai
quali manca la parte tecnica in quanto chiaramente disconosciuta
(società costituite da commercialisti ed avvocati); si viene
pertanto a creare una difficoltà di interlocuzione costruttiva tra
le figure tecniche (progettisti) e quelle finanziarie, che non
porta a nulla, non potendoci trasformare mutuamente in ibridi
idioti.

La Conformità urbanistica ed edilizia

Il Decreto-Legge 16 luglio 2020,
n. 76
– cosiddetto “Decreto Semplificazioni” – recante
Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione
digitale”
, convertito nella Legge 11 settembre 2020 n. 120, ha
apportato alcune modifiche rilevanti al D.P.R. 6 giugno 2001, n.
380, cosiddetto “Testo Unico dell’edilizia”. In particolare, è
stato introdotta (articolo 34 bis) un importante certificazione,
definita “Attestazione di Stato Legittimo dell’Immobile o
dell’unità Immobiliare
”; tale certificazione ha lo scopo di
asseverare che l’immobile, o l’unità immobiliare, è stato/a
realizzato/a in conformità del progetto iniziale e del
corrispondente titolo abilitativo, eventualmente integrato da
successivi progetti, con i rispettivi titoli abilitativi, che hanno
legittimato ulteriori interventi successivi di integrazione e/o di
trasformazione.

Come si può ben comprendere, la “semplice autocertificazione”,
così come la intende il burocrate legislatore, rappresenta, in
realtà, una ricerca aleatoria ed onerosa dell’intera storia
urbanistico-edilizia dell’immobile o dell’unità immobiliare, in
previsione di un successivo studio di fattibilità e della
progettazione esecutiva degli interventi; in altre parole,
l’Attestazione di Stato Legittimo rappresenta il tanto ricercato
“Fascicolo di fabbricato” che, essendo di difficile attuazione, si
presenta oggi sotto le vesti di una “semplice
autocertificazione”.

L’Attestazione di Stato Legittimo – definita usualmente
dichiarazione della conformità urbanistica ed edilizia – può essere
rilasciata solamente previa acquisizione degli atti storici che
sono depositati negli archivi comunali, in quelli del Catasto, in
quelli del Genio Civile e, per taluni interventi, anche negli
archivi ministeriali (soprintendenze, ecc.). Occorre pertanto
richiedere onerose procedure di accesso agli atti, che sono spesso
ingestibili per il tempo e le energie da impiegare per la ricerca,
la lettura e l’interpretazione della documentazione pregressa,
molte volte incompleta o addirittura non reperibile.

Dalla data di presentazione, dell’istanza di richiesta di
accesso agli atti, un comune mediamente risponde, con i dovuti
solleciti, in circa quattro mesi; la pandemia per questo non aiuta,
anche se è stata la causa scatenante del “decreto semplificazioni”
che ha imposto implicitamente tale obbligo.

D’altra parte, non e’ possibile, e non e’ altrettanto
professionalmente corretto, certificare una conformità edilizia ed
urbanistica “alla cieca”, senza avere autonomamente a disposizione
gli elementi minimi per poterla generare, ovvero un libero accesso
agli archivi pubblici (le chiavi di casa) e un’adeguata
remunerazione delle rispettive prestazioni professionali
(riconoscimento dell’onerosa attività, sia dal punto di vista del
tempo necessario, sia per le responsabilità dichiaratamente
espresse nell’autocertificazione).

Facendo un esempio, una qualsiasi opera può anche essere stata
autorizzata, a suo tempo, dal Comune, con il rilascio del titolo
abilitativo, senza che vi sia stata una regolare chiusura dei
lavori, con emissione, del collaudo statico ovvero con una
conformità di vincolo, ecc. Ci si pone pertanto la seguente
domanda: l’opera che dovremmo autocertificare è a posto da tutti i
punti di vista? I risvolti di tali disposizioni normative sono
molteplici e le responsabilità sono a vita! Ricordiamolo sempre
questo!

Invece di intraprendere la strada logica di un moderno condono
edilizio, con inglobamento nella progettazione anche delle opere
che possono essere integrate, demolite, migliorate o adeguate,
controllandone la rispondenza normativa d’insieme, si scimmiottano
conoscenze e logiche che sono incompatibili con lo stato effettivo
della realtà e dei problemi che bisogna affrontare. Mettere un
cappotto ad un edificio storico, senza ridurne la vulnerabilità
alle azioni sismiche, così come oggi consentito dalle norme del
Superbonus, rappresenta una scelta senza alcun senso logico, in
quanto qualsiasi volontà di intervento futuro (per esempio,
consolidamento delle strutture portanti dall’esterno) viene di
fatto ostacolata per la presenza del cappotto che, installato oggi
da me, potrebbe scoraggiare mio nipote in un prossimo futuro,
ritenendo un peccato rimuovere il cappotto del nonno, tra l’altro
verificato e validato da una certificazione. Si ostacola, inoltre,
la possibilità di un monitoraggio delle componenti strutturali
anche dall’esterno dell’edificio, essendo in cappotto un elemento
che assorbe bene le deformazioni, senza danneggiarsi troppo dopo un
terremoto di media intensità.

Il condono edilizio lo avremmo potuto definire con altri
termini, per esempio “razionalizzazione edilizia” (il termine
“razionalizzazione” evoca la cultura e la zelanteria germanica,
come esempio da seguire), lasciandoci alle spalle la storia dei
nostri precedenti condoni edilizi, che curavano soprattutto gli
aspetti fiscali, e di pensato e progettato avevano ben poco; si
sarebbe aperta così una fase nuova, nella quale ciò che abbiamo (il
nostro patrimonio edilizio) non veniva buttato al macero, o
lasciato deperire per impossibilità di intervento e per mancanza
del “pedigree”, una fase in cui poteva essere analizzata la qualità
costruttiva (criticità) delle nostre abitazioni agevolando un
virtuoso sviluppo.

È doveroso sottolineare che l’Attestazione di Stato Legittimo è
oggi necessaria per eseguire qualsiasi lavoro soggetto al rilascio
di un titolo edilizio, non solamente per i lavori fiscalmente
agevolabili, come quelli del Superbonus. Per esempio, qualora sia
necessario intervenire nel rifacimento di una copertura in legno
fortemente degradata, se l’immobile ha delle parti non
perfettamente in regola, per cui non è possibile rilasciare
l’Attestazione di Stato Legittimo, non è possibile eseguire
legalmente alcun intervento; l’immobile sarà così condannato a
“morte” naturale per divieto di somministrazione delle dovute
cure.

Come per tutti gli eventi della nostra esistenza, bisogna
analizzare la realtà dei fatti, per poter giudicare e, di
conseguenza, poter agire. Prima di concepire una legge bisognava
studiare bene quello che è il nostro patrimonio edilizio, le norme
e le consuetudini del passato e la nostra storia sociale. Io non mi
ritengo un esperto di leggi e di economia, e per questo non ho
ambizioni di trasformarmi in un avvocato, in un economista o in un
magistrato; la stessa riflessione dovrebbero farla anche gli
avvocati, gli economisti, i magistrati e tutti coloro che hanno
fatto della loro professione una scelta di vita, per amministrare
al meglio la nostra società. Per fare bene, con tutti i naturali
limiti umani, occorre uscire fuori dalle logiche meramente
politiche e, ahimè, sacrificare anche qualche voto, e qualche
testa, per il bene del nostro Paese.

La retribuzione del lavoro e i compensi professionali

Ai sensi delle vigenti normative, che disciplinano l’esercizio
delle attività tecnico-professionali, è necessario fornire al
committente un “preventivo di massima”, che deve essere pattuito
per le singole prestazioni, riportante il dettaglio dei costi in
relazione alla complessità e all’importanza dell’opera, le spese,
gli oneri e i contributi che saranno a carico del committente; il
preventivo deve altresì riportare gli estremi della polizza
assicurativa per gli eventuali danni provocati nell’esercizio
dell’attività professionale.

L’obbligo di stesura del preventivo di massima viene contemplato
anche dai codici deontologici delle singole professioni tecniche, a
garanzia del corretto esercizio delle relative prestazioni
professionali.

Oltre al suddetto preventivo, l’accordo tra le parti viene
regolamentato da un apposito contratto nel quale devono essere
riportate tutte le condizioni tecnico-economiche che disciplinano
l’incarico e, in particolare, i compensi da corrispondere al
tecnico professionista nei tempi consensualmente stabiliti.

Nell’attuale regime di libero mercato, scaturito
dall’abrogazione delle tariffe professionali che regolamentavano
gli onorari da corrispondere per le varie prestazioni tecniche, si
è venuto a creare un vulnus normativo – parzialmente colmato, per
il solo settore dei lavori pubblici, dall’emanazione del Decreto
Ministeriale 17 giugno 2016, cosiddetto “decreto parametri” – che
ha reso necessario l’emanazione di apposite leggi regionali per
definire un “equo compenso” per le attività professionali del
settore privato. Tali normative, emanate finora da oltre la metà
delle regioni del nostro Paese, nel ribadire l’obbligo di redigere
una lettera di incarico, con tutte le condizioni già stabilite
dalla normativa nazionale, introducono anche l’obbligo di
sottoscrizione, da parte del tecnico professionista incaricato, di
una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
attestante l’avvenuto pagamento delle prestazioni professionali da
parte del committente;
la mancata presentazione,
all’amministrazione pubblica delegata al rilascio dell’atto
autorizzativo, di tale dichiarazione sostitutiva, sospende il
procedimento amministrativo e il rilascio dell’autorizzazione per
l’esecuzione dei lavori.

Come abbiamo già descritto, il modello del Superbonus 110%
prevede la possibilità di liquidare le spese ammesse ai benefici
fiscali – tra le quali sono comprese anche le prestazioni
professionali – in occasione dell’emissione, da parte del Direttore
dei Lavori, dei corrispondenti Stati di Avanzamento dei Lavori
(S.A.L.).

Il pagamento dei corrispettivi tecnici relativi alla
progettazione degli interventi – con il messaggio vigliacco del
“tutto gratis”, che è rimasto impresso nell’opinione pubblica – pur
dovendo essere eseguito al momento della presentazione dell’istanza
relativa all’atto abilitativo di autorizzazione ad iniziare i
lavori, rimane, di fatto, sospeso fino all’emissione dello Stato di
Avanzamento dei Lavori (tipicamente il Primo S.A.L.) che ne
legittima la liquidazione.

Molti comuni, che ricadono nelle regioni in cui vige la legge
sull’equo compenso, si trovano oggi nella condizione di non poter
rilasciare l’atto autorizzativo, o a sospenderne il procedimento
amministrativo, precludendo così la possibilità di iniziare dei
lavori, nel caso in cui la documentazione tecnica richiesta per
legge non contenga alcuna dichiarazione che certifichi l’avvenuto
pagamento delle prestazioni professionali di progettazione. Il
tecnico progettista si trova così tra l’incudine e il martello, tra
l’implicito ricatto di un committente illuso dallo stato e la
necessità di adempiere ad un dovere di legge. In tutto questo, chi
ci rimette è sempre il tecnico progettista, che “aspetta e spera”,
rimanendo subordinato alle sorti dell’appalto e agli umori dei
committenti e delle imprese esecutrici.

Occorre inoltre ricordare che i benefici fiscali del
Superbonus, si applicano alle spese relative agli interventi, ivi
comprese le spese per la progettazione, a condizione che gli
interventi siano effettivamente realizzati. Non sussiste pertanto
nessuna tutela qualora, per svariati motivi, i lavori subiscano
un’interruzione “irreversibile”, ovvero nel caso in cui l’opera non
sia pienamente completata.

Pensiamo, per esempio, ai lavori da eseguire in un condominio
con molteplici unità abitative; in tal caso, basta una lite tra
moglie e marito, una minaccia di divorzio, affinché un lavoro
“trainato” (per esempio il cambio della caldaia) non si possa più
eseguire sull’appartamento dei coniugi litigiosi, mandando all’aria
tutto il sistema del Superbonus. Su un altro fronte, si potrebbero
verificare dei contenziosi, dei ripensamenti, ovvero delle
sofferenze economiche, da parte dell’impresa esecutrice che,
sospendendo i lavori e abbandonando il cantiere, renderebbe vana
ogni speranza. È vero che ci sono le polizze di assicurazione, tra
l’altro molto care! Intanto il progettista, che non è stato onorato
con il pagamento delle sue spettanze, per tutelare i suoi diritti
dovrà sobbarcarsi le spese correnti, quelle degli avvocati e anche
quelle delle marche da bollo!

In definitiva mi chiedo, e ci chiediamo? Perche, io progettista,
devo anticipare il mio tempo e le mie risorse, fungendo da banca,
per attivare le mie responsabilità ed essere pagato “a babbo
morto”? Perché voi, Legislatori da 110 – forse anche con la lode –
dall’alto delle vostre conoscenze teoriche, non avete saputo
prevedere tutto questo caos? Perché, qualora coscienti delle vostre
carenze, teoriche e pratiche, avete peccato di vanagloria, non
pensando che la realtà fosse diversa da quella da voi idealizzata?
Perché, a valle delle vostre teorizzazioni, non avete chiesto aiuto
agli esperti di lavori pubblici e di urbanistica? Cerchiamo, oggi,
di compensare queste lacune, con nuovi decreti, circolari,
interpelli ecc., che intorbidiscono ancora di più il senso della
logica, trascinando nel fondale della “melma” burocratica i residui
nudi della nostra economia. Il modello del Superbonus, così come
concepito, ha infatti contribuito ad acuire i malesseri di
un’economia già compromessa da oltre un decennio di recessione;
molti lavori, che potevano essere realizzati con finanziamenti di
altra natura (agevolazioni fiscali ordinarie; fondi privati, ecc.)
sono attualmente appesi alle risoluzioni del nostro apparato
burocratico, in attesa di un giusto equilibrio che spazzi via tutta
la polvere e che riporti alla luce l’essenza della logica e della
ragione.

Conclusioni

La realtà è purtroppo questa, ed io oggi la rappresento in prima
persona, così come un cane che abbaia solamente quando c’è qualcosa
che lo disturba, e sta zitto quando tutto va come vuole lui. Mi si
rimprovera, spesso, di condire le mie disquisizioni tecniche, con
pathos e riflessioni personali. Ai miei “giudici” rispondo:

Accogliere il vostro rimprovero, sarebbe come trasformare il
cane in un pesce, l’aria nell’acqua, la realtà in un sogno. Per
tutto il resto c’è sempre “Google”, che ne sa più di me.

Source: lavoripubblici.it

Link all’articolo Originale tutti i diritti appartengono alla fonte.

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