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Dopo il covid, così cambia la nostra casa: aria, luce, spazio e relazioni – Il Caffè.tv

Nell’ultimo anno è cambiato il nostro modo di abitare, siamo stati tutti molto più tempo tra le mura delle nostre case. Accanto ai disagi, sono emersi aspetti che sembravano superati: luminosità e ariosità, ad esempio. Spazi ridotti, pareti realizzate “a risparmio” e altri elementi hanno mostrato i loro grandi limiti e ci siamo resi conto che la casa è il nostro principale “habitat”. In barba a certe teorie che si infrangono miseramente sulla realtà del vivere…

Se la chiusura totale – il lockdown – ci ha costretti a stare ognuno per conto proprio, “isolati” tra le mura di casa propria, si fa ancora più forte l’esigenza dell’apertura e della condivisione, della relazione. Se ne sono accorti anche tecnici ed esperti dell’edilizia e dell’abitare. Non a caso la Mostra internazionale di Architettura appena inaugurata mette al centro questi temi. «In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti, chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme», afferma il curatore dell’importante evento, l’architetto, docente e ricercatore Hashim Sarkis. Un appello notevole, dato che Sarkis è Preside della prestigiosa School of Architecture and Planning al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Anche in Italia autorevoli professionisti del settore sono in sintonia con questa visione per un ritorno a case più vivibili, sostenibili e migliorate dalle attuali tecnologie. Come l’architetto Chiara Tonelli, professoressa ordinaria abilitata in Tecnologia dell’architettura presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre, dove è delegata del Rettore per la “Sostenibilità ambientale”. Esperta di edilizia residenziale, efficienza energetica e innovazione tecnologica, si occupa anche di attività di ricerca teorica e sperimentale.

Qui pubblichiamo un suo articolo scritto per i lettori del giornale Il Caffè: offre spunti davvero notevoli, anche riguardo al bonus 110% e alle altre agevolazioni fiscali. Tutte opportunità per rendere più umane e vivibili le nostre case e le nostre città. Un contributo prezioso – questo della professoressa Tonelli – per chi ha cuore il benessere personale, familiare e di comunità.

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La Biennale di Architettura, inaugurata a Venezia il 22 maggio, è intitolata “How will we live together?” (“Come vivremo insieme?”). Pone cioè un interrogativo molto attuale.

Le teorie sull’abitare più recenti, ma precedenti la pandemia 2020, sostenevano che la casa avrebbe dovuto essere molto piccola, perché una serie di servizi in condivisione, gestibili attraverso app sul telefonino, avrebbero permesso a chiunque di avere una sala da pranzo e una cucina molto grandi, affittabili per le occasioni in cui si volessero riunire amici e/o parenti; ludoteche a ore per il compleanno dei figli; car sharing per ridurre la necessità di garage; parchi pubblici al posto di giardini e terrazzi privati. L’architetto francese Eric Cassar di ArkhenSpaces presentò questa teoria all’Ambasciata di Francia nel 2019, sintetizzando che una coppia con 2 figli, grazie alla “sharing economy”, avrebbe potuto disporre di 1.500 metri quadri di abitazione, vivendo tuttavia in un appartamento di meno di 100.

Questa visione ha radici profonde e si è affermata nelle teorie e nelle sperimentazioni di co-housing tra la fine del secolo scorso e i primi anni di questo, dimostrando che era inutile avere in casa spazi sottoutilizzati. Il principio parte dalla trasposizione allo spazio privato del concetto di condivisione: a tutti è evidente che se voglio andare a New York non ho bisogno di possedere un aereo, ma basta acquistare un posto sull’aereo. Meno noto, ma pur sempre chiaro, è che non ho bisogno del trapano, ma del buco nel muro che il trapano fa e quindi sarebbe sufficiente avere un unico trapano tra gli abitanti del palazzo. Questa visione, traslata all’abitare, ha condotto a immaginare condomini di nuova generazione, in cui gli spazi privati sono limitati alla stanza da letto e da bagno. In comune cucine, soggiorni, sale da pranzo, stanze tv, stanze per gli ospiti…

La pandemia, però, in pochissimi giorni, anziché togliere funzioni alle nostre abitazioni ne ha aggiunte. Improvvisamente lo spazio domestico si è trasformato da casa a scuola, ufficio, palestra, ristorante, fornaio… Questa situazione ha stravolto i principi di sharing economy alla base delle teorie dell’abitare e del lavoro. I co-working, idea di ultima generazione per il mondo del lavoro, sono stati soppiantati in modo repentino dallo smart working. E lo stesso processo ha colpito le case. Ma le case, come recentemente si è visto anche sulla stampa nazionale, non sono molto smart. Tutti ci siamo accorti dei problemi di connessione wi-fi, che non supporta due figli in DAD (didattica a distanza, ndr). Dei problemi acustici, non tanto dipesi dai rumori esterni, quanto dall’assoluta inesistenza di isolamento acustico tra stanze della stessa casa e piani dello stesso palazzo. Dei problemi di comfort visivo: “Ma quanto è buia la mia casa?”.

Stando fuori gran parte del giorno non ci si era mai prestata attenzione. Dei problemi di comfort termico, casa fredda in inverno e calda d’estate. Dei problemi di spazio esterno, che hanno preso importanza molto più di prima, sia privati, sia condominiali. Insomma, è venuta a tutti la voglia di rifare la propria casa. E, combinazione, è uscito un bonus fantastico proprio per ovviare ai problemi energetici dei nostri edifici: quindi almeno termici e di illuminazione, che significa isolamento, nuove aperture per illuminare meglio, impianti efficienti. Per ottenere però il contributo del 110% lo Stato ci ha imposto di tornare a condividere: non puoi ristrutturare il tuo appartamento, devi trovare un accordo con tutti gli abitanti del palazzo e concordare le scelte. Insomma, in qualche modo i rapporti con le persone andranno ripristinati. Sulla condivisione, invece, di spazi e oggetti, la voglia rimane, ma si dovrà attendere un po’ di tempo.

Ma non scordiamoci altri aiuti fiscali per migliorare i nostri palazzi: il bonus facciate, 90% delle spese deducibili; il bonus verde, 5.000 euro di piante per inverdire gli spazi esterni privati; il bonus efficienza energetica per sostituire caldaie e infissi; il bonus ristrutturazione, il 50% delle spese sostenute per la manutenzione straordinaria deducibili in 10 anni; e, infine, il bonus arredi, 13.000 euro di spese per arredi nuovi. Su questi ultimi due vorrei spendere le ultime battute: sono l’occasione semplice e immediata per riorganizzare le nostre case per accogliere le nuove funzioni. Le grandi aziende, banche e multinazionali, hanno capito il grande risparmio economico ottenibile con lo smart working, e difficilmente torneranno indietro. Le nostre case si dovranno quindi riorganizzare per divenire, di giorno, uffici.

Sperando che le amministrazioni comunali accelerino il processo di infrastrutturazione digitale delle nostre città, con reti di fibra ottica veloci, dovremmo pensare a nuovi angoli di lavoro e studio, attrezzati e funzionali, trasformabili, magari, tra il giorno e la notte (Clei), circondati da séparé interni che lascino filtrare la luce, ma non il suono (Bencore), a cambiare i colori di pavimenti e pareti, per dare maggiore luminosità agli ambienti, a ideare controsoffitti in grado di migliorare il comportamento acustico delle nostre stanze, ad aggiungere finestre da tetto e tubi solari (Velux), per illuminare naturalmente le nostre case.

Chiara Tonelli,

Professoressa all’Università degli Studi Roma Tre,

Ordine degli Architetti di Roma e provincia – [email protected]

Link all’articolo Originale tutti i diritti appartengono alla fonte.

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