La capacità lavorativa di un negozio di moda al dettaglio è diminuita del 35%, subendo in questo periodo come mai prima una notevole concorrenza dall’online e dai colossi del web, che hanno potuto beneficiare di un’importante rendita di posizione. Durante la pandemia il comparto ha visto chiudere in Italia circa 9.000 negozi di moda, abbigliamento, calzature, pelletteria e accessori su 115mila, passando da 310.000 lavoratori addetti del 2019 ai 288.237 di oggi, nonostante tutti gli store avessero investito in presidi sanitari per la tutela dei clienti e dei dipendenti. Alla fine di questa disastrosa pandemia, si stima che le serrande abbassate saranno circa 20.000. A snocciolare i numeri è Giammaria Zanzini, presidente provinciale di Federmoda-Confcommercio che spiega come “Per sostenere e rilanciare il commercio al dettaglio non si può prescindere da quel “patto di filiera” da noi fortemente auspicato, ma che nemmeno il periodo di pandemia ha saputo far sbocciare. Il nostro settore è ancora in grande sofferenza per la chiusura forzata durata a lungo e sicuramente è anche il settore più colpito dalle rimanenze di magazzino accumulate come conseguenza della pandemia”.
“Il lungo periodo di chiusura – ricorda Zanzini – è andato poi ad impattare notevolmente sulle politiche di pricing dei negozi, che hanno dovuto fare i conti su un prodotto stagionale e sul rischio di invenduto, tutto a carico delle attività commerciali al dettaglio. Ciò impone non solo una riflessione economica, ma anche etica, che deve portare a rivedere i rapporti di filiera al momento del tutto squilibrati. Non ritengo più possibile che tra fornitore e venditore si debba rinunciare completamente alla divisone dei rischi d’impresa. Da questo punto di vista siamo stati lasciati completamente soli. I contratti che firmiamo con i brand per avere la merce sono del tutto anacronistici. Condizioni oltremodo stringenti, per non dire vessatorie, tutelano esclusivamente la parte industriale senza tenere conto delle oggettive dinamiche di crisi innescate dalla pandemia che vanno ad impattare fortemente sul rivenditore finale. L’industria della moda non può essere arrogante a monte con i produttori e prepotente a valle con i negozi al dettaglio con contratti che sono solamente pro domo sua. Così non possiamo andare avanti. Siamo micro e piccole imprese e non possiamo permetterci di avere su di noi tutto il peso della crisi: l’impossibilità di rivedere gli ordini effettuati senza essere colpiti da penali pesantissime nonostante le chiusure non siano imputabili all’esercente, ma avvengano per decreto, non solo deve fare capire al cliente finale in che situazione ci troviamo, ma deve anche innescare una risposta concreta a livello legislativo. Si deve agire in fretta. Ben vengano dunque il Tavolo della moda ministeriale e il suo omologo appena attivato in Regione Emilia Romagna, dove poter discutere con tutte le parti in causa insieme alle istituzioni, per arrivare ad una soluzione condivisa che tuteli tutte le anime della filiera, imprescindibili l’una dall’altra”.
“A questi grandi problemi – aggiunge – si aggiunge poi il dietrofront nel Decreto Sostegni Bis, che ha escluso il settore della distribuzione, dunque i negozi al dettaglio, dal credito d’imposta sulle rimanenze di magazzino, premiando ancora una volta solo l’industria. Se vogliamo contenere gli effetti negativi sulle rimanenze finali di magazzino nel settore tessile, della moda, della calzatura e degli accessori, non possiamo prescindere da questo credito d’imposta. Oltre a questo, come Federmoda-Confcommercio, abbiamo portato al Tavolo della Moda istituito presso il ministero dello Sviluppo economico la richiesta di un impulso per la domanda interna di prodotti di moda, proponendo l’introduzione di una aliquota agevolata temporanea del 10% e detrazioni fiscali dedicate al consumo, sulla scia di quanto messo in campo nei settori edile e automobilistico con gli ecobonus e del mobile d’arredo con il bonus mobili. Inoltre, per non perdere ancora forza lavoro, chiediamo che vengano messi in atto sgravi fiscali sulla scorta della Decontribuzione Sud, a chi mantiene occupazione lungo tutta la filiera della moda, dalla produzione fino alla distribuzione al dettaglio. Seppur molti brand facciano concorrenza diretta ai negozi tramite i loro canali on-line, va ricordato che la filiera della moda ha bisogno dei negozi al dettaglio. Se vengono a meno i negozi di vicinato, saltano tutte le filiere del tessile, del calzaturiero, della pelletteria. Dai produttori di filati e tessuti a quelli di macchine per cucire, dalle case di moda alle fabbriche di bottoni, dai grossisti agli agenti di commercio, fino ad arrivare ai corrieri. Siamo l’anello portante della catena: le istituzioni ma anche un’industria troppo spesso sorda ai nostri appelli, devono capirlo prima che si spezzi”.
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