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Dal punto di vista sismico, la qualità degli edifici residenziali a Catania “fa schifo”. Se dovesse verificarsi un terremoto come quello che nel 1693 fece 55 mila morti in Sicilia Orientale, molti dei quali ai piedi dell’Etna, “le conseguenze sarebbero molto più gravi”. Catania è insomma una delle capitali mondiali del rischio sismico, ma uno strumento come il Superbonus 110 per cento, che permetterebbe di migliorare la resistenza sismica di molti edifici a costo zero, viene quasi ignorato dai cittadini. Eppure ci sarebbe tempo e modo per intervenire in modo efficace, “anche con modalità non invasive per le famiglie”. Sono i temi affrontati nel corso dell’approfondimento di FocuSicilia dedicato al superbonus e al rischio sismico nel versante orientale dell’Isola, alla presenza di professionisti ed esperti del settore. A intervenire in diretta sono stati Domenico Patanè, dirigente di ricerca dell’Ingv di Catania, Ivo Caliò, docente di Scienza delle costruzioni all’Università di Catania e Salvatore Messina, vicepresidente Ance Catania, l’associazione dei costruttori etnei.
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Il timore del “big one”
Il famoso “big one”, il terremoto catastrofico che potrebbe mettere in ginocchio Catania e l’intera Isola, non è affatto una possibilità remota. “Dal punto di vista probabilistico c’è una finestra di circa 300 anni per i terremoti di magnitudo importante sul modello di quello del 1693”, spiega il ricercatore. In quel caso, la magnitudo registrata fu di 7.4 e il conto delle vittime fu molto salato. Oggi, malgrado tre secoli di progressi tecnici, sarebbe peggiore, spiega Patané. Il conto dei morti risulterebbe più grave “a causa della maggiore presenza di insediamenti urbani, della densità della popolazione e della scarsa qualità degli edifici costruiti dagli anni Cinquanta ai Settanta”. La Sicilia è “fra le zone a maggiore pericolosità sismica in Italia”, e a doversi preoccupare di un evento simile è soprattutto “la fascia che comprende Messina, Catania, Ragusa e Siracusa”. I siciliani, avverte l’esperto, non devono cullarsi pensando alla solita “terra ballerina”. “Il terremoto dello scorso 23 dicembre, ampiamente avvertito dalla popolazione, contò 19 scosse la più forte delle quali di magnitudo 4.3”. Numeri simili per il sisma avvenuto l’anno scorso al largo delle coste ragusane, e avvertito in tutta la piana di Catania “che fu di magnitudo 4.6”. Una potenza considerevolmente minore rispetto al grande sisma di fine Seicento.
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Scarsa resistenza alle scosse
Per questo l’esperto ritiene “assurdo” che la maggior parte delle pratiche del Superbonus, il 70 per cento, riguardi l’ecobonus, e soltanto il 30 per cento il sisma bonus. “Chi sta elargendo le somme per ristrutturare le abitazioni non ha posto la sufficiente attenzione al rischio sismico”. Una sottovalutazione che potrebbe dipendere da una scarsa conoscenza della storia edilizia delle città siciliane, spiega il professore Caliò. “La prima a dotarsi di una norma sismica è stata Messina, nel 1909, all’indomani del devastante terremoto del 1908”. Il resto dell’Isola, prosegue il docente, è arrivata molto in ritardo. “Gran parte della Sicilia è classificata come zona sismica dal 1981. Le costruzioni progettate prima considerano soltanto i carichi gravitazionali, escludendo le sollecitazioni sismiche, che vanno in tutte le direzioni”. Fuori dal linguaggio tecnico, la maggior parte dei palazzi sono studiati per sopportare soltanto il proprio peso, in linea verticale. Il terremoto, viceversa, espone gli edifici anche a sollecitazioni orizzontali. Ecco perché le strutture costruite prima della norma antisismica “hanno una resistenza dal 20 al 50 per cento rispetto a quella che dovrebbero avere se correttamente progettati”.
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Le colpe di politica e società
Una fragilità strutturale la cui responsabilità ricade anche sulla classe dirigente dell’epoca, sottolinea Caliò. “I politici si vantavano del fatto che la maggior parte dell’isola non fosse zona sismica, perché ciò avrebbe comportato maggiori costi di costruzioni”. Anche i costruttori non furono esenti da colpe. “Nel 1981 vi fu una corsa a depositare i progetti con le vecchie normative, in modo da non tenere conto delle nuove leggi”. La conseguenza è che “il 70 per cento del patrimonio residenziale è stato costruito in assenza di norme sismiche”, e paradossalmente “i vecchi edifici in muratura sono meno deboli di quelli in cemento armato costruiti negli anni Settanta”. Un j’accuse a cui non si sottrae il vicepresidente di Ance Catania Salvatore Messina. “Le responsabilità dei costruttori di allora appaiono evidenti. Soprattutto ciò che è stato tirato su dagli anni Sessanta agli anni Ottanta è molto, molto scadente”. Da tempo, tuttavia, gli imprenditori edili hanno acquisito una consapevolezza diversa. “Ance Catania da almeno 15 anni lavora molto sulla comunicazione sul rischio sismico nel nostro territorio”, rivendica Messina. Tra i progetti portati avanti dall’associazione, “il ciclo di dottorato sul recupero sismico degli edifici, il progetto E-Safe dell’Università di Catania di cui siamo partner, e in generale un’opera di sensibilizzazione costante sul territorio”.
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Giocare con il destino
Malgrado tutto, il messaggio fatica ad arrivare al grande pubblico. Soprattutto a Catania i cittadini “giocano col fato, fanno scongiuri e risatine, si appellano alla cabala”, sottolinea il vicepresidente. Non si tratta soltanto di una preoccupazione legata al denaro. “I catanesi devono capire che gli 80/90 mila euro che spendono in un Suv farebbero meglio a spenderli nella manutenzione del loro luogo di vita, perché la vita è inestimabile. In questo caso, inoltre, l’intervento sarebbe addirittura a costo zero”. Come accennato, la maggior parte dei cantieri che si vedono in giro per le città siciliane – ma anche italiane – riguarda l’ecobonus. Qui entrano in gioco scelte di vita che le imprese non possono influenzare, sottolinea Messina. “Noi siamo degli esecutori chiamati a valle della progettazione, lavoriamo su ciò che viene richiesto visto che non siamo onlus ma imprese finalizzate al profitto”. Per il vicepresidente dei costruttori etnei il problema è anche burocratico. “La pratica per il sisma bonus è più complessa rispetto a quella dell’ecobonus, quindi la gente preferisce fare la pratica più semplice per ottenere l’incentivo”. Per questo sarebbe stato preferibile “un metodo più strutturato e intelligente”, tenendo comunque conto che l’emergenza sismica “non si risolve soltanto con i bonus”.
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Nuove tecniche non invasive
Specialmente se una volta avviati gli interventi non si ha il “coraggio” di andare fino in fondo. Lo spiega il professor Caliò. “Spesso si preferiscono interventi palliativi che servono solo ad accedere ai bonus, ma non risolvono i problemi strutturali”. La responsabilità è anche dei tecnici, “che non avendo una piena conoscenza non promuovono più di tanto alcuni interventi”. A disincentivare molti dall’attivare il sisma bonus anche l’idea di notevoli disagi abitativi. Per il docente, si tratta di una percezione sbagliata. “Oggi esistono anche tecniche non invasive, per non costringere gli inquilini a lasciare la casa durante i lavori, come nel caso di un edificio sui cui stiamo intervenendo a Catania”. L’intervento, spiega il docente “ha portato la resistenza dell’edificio dal 20 a oltre il 60 per cento, senza dover far spostare gli inquilini da casa”. Per fare in modo che questa consapevolezza arrivi ai cittadini, i tre esperti concordano sul fatto che associazioni, università e ricerca si muovano in sinergia. “Ci dobbiamo impegnare per fare bene tutti insieme, in modo che la fragilità del ostro territorio possa essere finalmente superata sfruttando e possibilità offerta dalla tecnica e gli incentivi messi a diposizione dal governo”, concludono Patané, Caliò e Messina.
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