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Lega, la linea «ribelle» di Salvini non piace a ministri e governatori. Ma incalzano sull’autonomia – Corriere della Sera

di Marco Cremonesi

Il sorpasso di FdI e la partita interna al Carroccio dopo l’altolà del leader a Draghi. Poi il segretario rilancia: «Non sono pentito di essere entrato al governo, ma se non taglia le tasse è dura starci»

Governatori e ministri leghisti contro il governo? Matteo Salvini, nell’intervista al Corriere di ieri, la dice così
: «I mugugni ci sono stati, e tutti nei confronti del governo». Anche se in una nota di fonti vicine ai presidenti delle regioni leghiste si legge che «i governatori della Lega restano “governativi”». La lettura di Salvini confligge con la versione corrente della questione: quella secondo cui chi ha la responsabilità delle scelte è assai meno propenso a certe esuberanze.

E così, probabilmente, nessuno degli interessati pensa a crisi di fine estate o primo autunno: «Il mood è di tutt’altro tipo» dice uno di loro. Il segretario leghista ha dato appuntamento sul pratone di Pontida per il 18 settembre: è la data entro cui si «attendono risposte» dal premier Mario Draghi, e pazienza se in quei giorni partirà la sessione di bilancio. E a Porta a Porta, il leader dice: «Non sono pentito di essere entrato al governo, ma se non taglia le tasse è dura starci».

Certo, sull’autonomia differenziata delle Regioni, chiesta con referendum da Lombardia e Veneto nell’ormai lontano 2017, nessun dubbio: i ministri leghisti sono d’accordo. Ad offrire la sponda per dirlo, una nota di Federico Conte e Stefano Fassina: «L’autonomia differenziata come definita dalla bozza Gelmini-Zaia-Fontana — scrivono i due deputati di Leu — implica la fine sostanziale dell`unità della Repubblica e la “secessione dei ricchi”». Rispondono i ministri leghisti, Erika Stefani, Massimo Garavaglia e Giancarlo Giorgetti: «L’Autonomia differenziata è una richiesta di tutto il Paese. Bisogna uscire dalla “vecchia contrapposizione nord-sud” e dire che la spesa storica avvantaggerebbe solo alcune Regioni è affermazione priva di fondamento».

La risposta è utile anche a tranquillizzare Salvini sul fronte interno del partito. Ma il problema sembra assai più ampio. Se i governatori fanno trapelare qualche fastidio per essere stati chiamati in causa dal segretario su una linea opponente al governo, nel partito volano schiaffoni. Addirittura, c’è chi punta dritto contro la leadership di Matteo Salvini, come per esempio l’assessore veneto Roberto Marcato. Le sue sono cannonate: «Io credo che una riflessione profondissima e violenta all’interno del nostro partito vada fatta». Un problema di identità, anche: «Non voglio più stare in partito in cui non si parla di autonomia, di federalismo, di imprese, di artigiani, di operai, di ambiente. Dobbiamo capire a che latitudine ci collochiamo».

Mentre l’eurodeputato Toni Da Re è incandescente: «Qui si parla della guerra in Ucraina, ma dobbiamo parlare della guerra nella Lega, che in Veneto non si riconosce più nella politica di Salvini». Ad Alberto Stefani, commissario regionale, tocca intervenire: «La forza della Lega è sempre stata la compattezza, le polemiche sui giornali non interessano ai cittadini e alle aziende che hanno bisogno di risposte e aiuti». La sensazione di equilibrio instabile, dentro la Lega, è forte. Il governatore Luca Zaia, spesso dipinto tra i possibili anti Salvini, ieri in un’intervista al Corriere del Veneto è stato sibillino: «Le riflessioni all’interno del movimento si faranno con i dati alla mano, ma dopo aver chiuso questa partita elettorale». Come dire: dopo i ballottaggi, tra un paio di settimane, qualcosa potrebbe muoversi.

Dalle parti del ministro allo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti a tutto si pensa tranne che a crisi di governo. Il ministro, che per un mal di schiena non era presente al Consiglio federale da cui sono partite le considerazioni di Salvini, sul governo non si lascia sfuggire una sillaba. È vero, il vicesegretario della Lega, pur passando per «draghiano» convinto, in passato non ha nascosto, anche in Consiglio dei ministri, sulle «incongruenze» del decreto che prorogava l’emergenza Covid. Ma intorno a lui, nessuno pensa ad altro che al momento difficile dell’economia: «Giancarlo — dice un suo amico — stamattina ha dovuto portare i tempi per le immatricolazioni sotto ecobonus da 180 a 270 giorni, da sei a nove mesi. Questo perché, semplicemente, mancano i pezzi delle auto. Come si fa a pensare alla crisi in un momento così?».

15 giugno 2022 (modifica il 15 giugno 2022 | 23:00)

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