La compensazione tributaria indebita comporta diverse sanzioni, dal 30% al 200%, che variano in base alla qualificazione del credito utilizzato dal contribuente.
In ambito fiscale ci sono dei concetti fondamentali che sfuggono a un’interpretazione chiara. Uno di questi riguarda la differenza tra crediti fiscali inesistenti e non spettanti. L’impatto pratico di questa distinzione è notevole, perché per i crediti inesistenti la sanzione è pesantissima, mentre quella per i crediti non spettanti è molto più blanda. Inoltre, chi viene accertato per un credito non spettante può accedere alla definizione agevolata e così potrà pagarlo a rate e con sanzioni ridotte; questa possibilità è preclusa se il credito è qualificato come inesistente.
Tutto questo può fare una grossa differenza, soprattutto in un periodo, come quello attuale, in cui molti contribuenti italiani godono dei vari bonus edilizi che consentono un notevole risparmio d’imposta, come il Superbonus 110% o il bonus facciate; senza dimenticare le consuete detrazioni Irpef e gli ordinari crediti spettanti in materia di Iva e altre imposte.
Di recente, è arrivato un importantissimo chiarimento della Corte di Cassazione, che in due sentenze gemelle [1], depositate nello stesso giorno, ha finalmente indicato qual è la differenza tra i crediti fiscali inesistenti e quelli non spettanti, precisando anche come ed entro quando essi si accertano a cura dell’Amministrazione finanziaria e quali sanzioni vanno applicate nell’uno e nell’altro caso.
Compensazione fiscale: cos’è e come funziona?
I crediti d’imposta operano in diminuzione delle imposte a debito. Rappresentano, quindi, uno sconto sulle tasse da pagare. La compensazione è una particolare applicazione, in ambito tributario, del principio generale stabilito dall’art. 1241 del Codice civile, secondo il quale: «Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti».
Nella compensazione fiscale, i soggetti interessati sono, da un lato, il Fisco, che attraverso gli organi dell’Amministrazione finanziaria esercita le proprie pretese impositive, e, dall’altro lato, il contribuente, che fa valere le poste a proprio credito e le pone in compensazione con i suoi debiti fiscali. Ad esempio, nel frequente caso di credito Iva si detrae dall’importo a debito la somma dell’Iva a credito maturata nel periodo considerato: in concreto, dall’ammontare dell’Iva incassata sulle vendite si sottrae quella pagata sugli acquisti e si paga solo la differenza.
La compensazione è di due tipi:
- verticale quando i crediti e i debiti sono relativi alla medesima imposta;
- orizzontale quando un credito d’imposta viene posto in diminuzione di un debito sorto per un’imposta diversa.
La compensazione è preclusa per i contribuenti che hanno maturato debiti tributari non pagati ed iscritti a ruolo dall’Agente della Riscossione per importi superiori a 1.500 euro, a meno che non siano stati posti in definizione agevolata, nelle varie forme di rateizzazione, rottamazione o saldo e stralcio.
Crediti inesistenti o non spettanti: quale differenza?
Con due innovative sentenze [1] la Corte di Cassazione ha superato il precedente e tradizionale orientamento, che non ravvisava differenze tra crediti d’imposta non spettanti e crediti d’imposta inesistenti [2]. Adesso, secondo la Suprema Corte, per «credito inesistente» deve intendersi quello connotato da due requisiti essenziali e che debbono essere entrambi presenti:
- la mancanza del presupposto costitutivo necessario per farlo sorgere, sicché il credito è stato indicato dal contribuente in maniera fraudolenta o comunque in base a una rappresentazione dei dati non reale e non veritiera;
- l’impossibilità di riscontrare l’inesistenza del credito mediante le ordinarie attività di liquidazione e controllo, automatizzato o formale, delle dichiarazioni presentate dai contribuenti [3].
Il Collegio sottolinea che la definizione di credito inesistente è ancorata al dato normativo contenuto nel Decreto legislativo di riforma delle sanzioni tributarie [4]. In assenza di uno solo di questi due elementi – la mancanza del presupposto costitutivo e la non riscontrabilità attraverso i controlli fiscali – il credito d’imposta non può essere qualificato come inesistente, bensì come «credito non spettante».
Facciamo un esempio pratico per chiarire la necessità di entrambi i requisiti ai fini della qualificazione di un credito come inesistente.
Un contribuente “inventa” un credito d’imposta, creando con lo scanner una falsa fattura (che in realtà nessun imprenditore ha emesso a suo favore). La non spettanza del credito emerge facilmente dai controlli dell’Agenzia delle Entrate, che effettua l’incrocio automatizzato dei dati riportati dal contribuente con quelli presenti nell’archivio delle fatture elettroniche. In questo caso, il credito sarebbe inesistente per mancanza del presupposto oggettivo, ma la sua rilevazione attraverso le ordinarie attività di controllo dovrà farlo qualificare come credito non spettante.
Crediti inesistenti e non spettanti: la differenza sanzionatoria
I crediti fiscali inesistenti hanno un regime sanzionatorio molto più severo rispetto a quello dei crediti non spettanti. Questo spiega l’importanza pratica della loro esatta qualificazione. Per i crediti inesistenti la sanzione amministrativa va dal 100% al 200% del loro ammontare; nel caso dei crediti non spettanti, invece, la sanzione è pari al 30% del credito utilizzato [5].
Questa differenza sanzionatoria si spiega con la maggiore pericolosità e gravità dei crediti inesistenti, creati con rappresentazioni false e con modalità fraudolente. La recente sentenza della Cassazione [1] ha confermato che, in tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, la sanzione del 30% si applica in caso di utilizzo di un credito non spettante, mentre per l’utilizzo di un credito inesistente va adottata la sanzione dal 100 al 200%.
Inoltre, in caso di crediti inesistenti l’Amministrazione ha a propria disposizione un termine decadenziale maggiore. Ci sono otto anni di tempo per operarne il recupero, notificando l’atto di accertamento entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello in cui il credito è stato indicato dal contribuente [6]. È un termine doppio a quello dell’accertamento ordinario, che si applica ai crediti non spettanti, come a tutte le altre ipotesi di rettifica delle dichiarazioni. Il raddoppio dei termini di accertamento per i crediti inesistenti ha la sua spiegazione nel fatto che il Fisco non riuscirebbe a riscontrare immediatamente e in modo automatico, mediante gli ordinari controlli, il carattere fittizio e indebito della compensazione operata dal contribuente.
note
[1] Cass. sent. n. 34443 e n. 34445 del 16.11.2021.
[2] Cass. n. 24093/2020.
[3] Art. 36 bis e 36 ter D.P.R. n. 600/1973 e art. 54 bis D.P.R. n. 633/1972.
[4] Art. 13, co. 5, D.Lgs. n. 471/1997.
[5] Art. 13, co. 4 e co. 5, D.Lgs. n. 471/1997
[6] Art. 27, co. 16, D.L. n. 185/2008.
Link all’articolo Originale tutti i diritti appartengono alla fonte.