Lo dice Elettricità Futura, l’associazione di Confindustria dei produttori di rinnovabili: se si realizzasse il loro Piano di sviluppo del settore elettrico – che prevede l’installazione di 85 nuovi GW (gigawatt) di potenza rinnovabile al 2030 – si produrrebbero 470 mila nuovi posti di lavoro nella filiera e nell’indotto elettrico entro la stessa data (si aggiungeranno ai circa 120 mila di oggi). E si arriverebbe a una riduzione del 75% delle emissioni di CO2 del settore elettrico sempre al 2030 rispetto al 1990.
Si tratta di un Piano coerente con il nuovo REPowerEU 2030, la proposta della Commissione europea che punta agli obiettivi rinnovabili più ambiziosi di sempre; inoltre è in linea con quanto delineato a livello globale dalla Iea (Agenzia internazionale dell’energia) nel suo World Energy Outlook 2021 pubblicato a ottobre in occasione della COP26 di Glasgow. Secondo questo studio se si perseguisse l’obiettivo ‘zero emissioni nette’ al 2050 si creerebbe un mercato per turbine eoliche, pannelli solari, batterie agli ioni di litio, elettrolizzatori e celle a combustibile di ben oltre 1 trilione di dollari all’anno entro il 2050. Qualcosa di dimensioni paragonabili all’attuale mercato petrolifero, con 26 milioni di lavoratori impiegati nell’energia pulita e nei settori correlati entro il 2050. Ma anche guardando allo scenario degli impegni fino ad oggi annunciati dagli Stati, ci sarebbero almeno 13 milioni di lavoratori in più entro il 2030.
Questo nel lungo periodo. Ma, il problema è oggi: come far sì che la transizione ecologica sia giusta. Cosa devono fare il nuovo Parlamento e il governo? Partiamo da un punto. Ci troviamo a vivere uno straordinario momento della storia. Oggi con una sola azione si possono perseguire due obiettivi, anzi molti: se acceleriamo nell’installazione delle rinnovabili facciamo un grande passo avanti nell’indipendenza energetica, nella riduzione delle emissioni inquinanti, nella lotta contro i cambiamenti climatici, nell’abbattimento del costo dell’energia, nella creazione di nuovi posti di lavoro; e guadagniamo in qualità ambientale e salute.
Due le strade da seguire: risorse da impiegare, azioni da portare avanti.
Le risorse pubbliche ci sono. Si parla tanto del Pnrr, che è sicuramente un’occasione da non sprecare, ma non c’è solo quello. Ci sono 19 miliardi (sarebbero almeno 35 secondo le valutazioni di Legambiente) di sussidi ambientalmente dannosi (cioè soldi che vengono dati ogni anno a settori inquinanti), su cui molto si può recuperare. Ci sono gli extraprofitti delle imprese energetiche, su cui troppo poco si è fatto. Si può, e si deve, abbandonare l’opzione dei bonus universali, che finiscono per penalizzare i più fragili, come è recentemente avvenuto con la riduzione delle accise dei carburanti, dove le risorse pubbliche investite sono andate a vantaggio soprattutto dei ceti più abbienti (rielaborazione dati Istat presentata ad aprile di quest’anno dal Forum Disuguaglianze Diversità), dal momento che tra le famiglie più povere il 60% ha una spesa nulla per i carburanti, contro il 30% delle famiglie più ricche.
Le azioni. Difficilmente chi arriva a stento a fine mese se la sente di imbarcarsi nell’applicazione del 110%. Servono politiche per la riqualificazione delle case di edilizia pubblica con un’immediata virata dell’utilizzo del 110% grazie a due misure pratiche: dare priorità agli Ater e ai quartieri di periferia nell’espletamento delle pratiche amministrative e mettere delle agenzie specializzate a disposizione dei quartieri dove maggiore è la presenza di persone fragili (anche con il contributo del terzo settore) per “accompagnare” le famiglie in difficoltà economica e culturale, e risolvere le questioni amministrative e gestionali. Poi servono lavori di riqualificazione del verde e di forestazione per rendere le aree di periferia più resilienti agli effetti dei cambiamenti climatici, che questa estate – prima con la siccità e poi con le alluvioni – abbiamo visto ricadere drammaticamente sui nostri territori.
Tra le cose più urgenti da fare ci sono inoltre: ripensare e semplificare il bonus sociale elettricità e gas, il cui limite di accesso è stato provvisoriamente innalzato dal governo Draghi a 12 mila euro di ISEE, cosa che comunque esclude ancora molte famiglie povere che non sono in grado di produrre l’ISEE; diffondere le comunità energetiche nelle periferie, seguendo la strada tracciata dalla legge regionale dell’Emilia-Romagna e utilizzando i fondi del Pnrr.
Fin qui abbiamo visto le tante cose che si possono fare soltanto nel settore energetico per dare una risposta seria ed immediata. Ma ci sono altri settori dell’economia circolare che offrono grandi opportunità di lavoro e di crescita. Da candidata alla Camera per il centro-sinistra – nel collegio uninominale Roma 03 (cioè in un’area in cui vivono oltre 500 mila persone, compresa in due municipi, il V e il VI) – penso per esempio a un incremento dell’occupazione lavorando nella mobilità sostenibile, nella sharing mobility nelle periferie (non solo nei centri storici), nel ciclo dei rifiuti e nello sviluppo delle bio-plastiche, nella messa in sicurezza delle aree a rischio alluvioni o frane, nella cura del territorio contro gli effetti dei cambiamenti climatici, nell’agrivoltaico (che coniuga l’agricoltura con il fotovoltaico).
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