Come forse ormai sarà chiaro questa faccenda della ristrutturazione ha finito per conquistare per intero il mio spazio mentale. In realtà covavo da anni il sogno di dar forma a una casa a modo mio, lavorando dall’inizio a un progetto di ristrutturazione insieme a un architetto scelto da me. Il rapporto tra committente e architetto è poi particolarmente interessante e tessuto di reciproche ossessioni, che nel nostro caso non possono sfondare nella megalomania per una provvidenziale mancanza di liquidità – tuttavia malgrado la notevole mole di preoccupazioni in cui bisogna districarsi resta possibile divertirsi, almeno secondo me.
Prima di farlo bisogna però sbrigare una serie di pratiche burocratiche, e sono in effetti mesi che il mio architetto – l’ormai fantomatico Fabiagio Salerno dello Studio DALET di Bologna – impazzisce dietro a questi incartamenti. Tante volte vorrei chiamarlo, anche di notte o in mezzo al weekend, per parlare del modello del camino trifacciale, della continuità spaziale degli ambienti, del tipo di vernice da usare per lo splashback della cucina; oppure dei disastri burocratici, dei ritardi, dei tranelli che ci tira lo Stato… ma mi rendo conto di non poterlo fare davvero a tutte le ore – essendo poveretto stressato ininterrottamente da pletore di miei epigoni. Ed è così che quando sabato notte mi viene in mente il punto di bianco perfetto per i battiscopa resisto, mi giro nel letto e spengo il cellulare. In realtà vorrei sempre parlare con lui perché lo conosco e perché oltre a me lui – proprio come me – ha una parte in questa commedia: sa di cosa parlo, è insomma il mio interlocutore ideale. Ma essendolo anche per tutti i tecnici, gli operai, gli ingegneri che vengono inevitabilmente coinvolti in un progetto di ristrutturazione – e lui in questo momento ne sta seguendo otto –, non può che in certa qual misura aver bisogno di requie da questa masnada di questuanti, e chissà che anche per questo non mi sia risolto a scrivere questi articoli. In ogni modo qualche tempo fa sono riuscito a incastrarlo, ci siamo visti al cantiere e così gli ho dato occasione di (i.e. l’ho costretto a) fornire il suo punto di vista su tutto ciò che investe il lavoro e la vita di un architetto prima ancora di pensare al disegno di un progetto, e anche su come tutto ciò getti una luce ancor più sinistra sul Golem della burocrazia italiana. A voi succede spesso di parlare con un architetto? A me capita meno di quanto vorrei.
“In Italia”, comincia a spigarmi mentre passeggiamo tra foratini e sacchi di malta, “in tema di edilizia ogni cosa è normata da tutti gli enti che immagini: Stato, regioni, provincie, comuni. Siamo arrivati a questo punto perché nel dopoguerra era tutto così poco normato che il potere decisionale in ambito edile era completamente concentrato nelle mani di alcune persone. È un paradosso ma meno leggi ci sono e più i burocrati hanno potere. Per poter costruire bisognava ottenere il permesso di qualcuno, presso il tale comune o il certo ente. Per ovviare a questo problema, che soprattutto al Sud era una piaga, si è scelto di fare pianificazioni dettagliatissime: ora in ambito edilizio c’è una legge per tutto”. E cosa comporta tutto ciò? “Che la discrezionalità in materia di edilizia è ridotta praticamente a zero, non c’è bisogno che tu sia amico del cugino dell’assessore per avere un permesso”.
“La burocrazia – continua mentre mi indica la voltina “volterranea” da cui non viene via uno strato di cemento particolarmente tenace, e che dovremo dunque rivestire con un tratto di betoncino armato – ha risolto alcune piaghe legate al clientelismo, ma dopo aver normato ha finito per occupare il 90% di un progetto. All’architettura resta quello spazio residuo sfuggito alle maglie della legge: stabilito quanto puoi costruire, con che altezze, fatto un regolamento d’igiene che dice quanto sono grandi le finestre, quanto alte le ringhiere, quanto vaste le strutture… sommi il tutto e nel poco spazio che resta c’è il progetto. Esistono piani del colore, piani particolareggiati che impongono la forma che devono avere gli edifici… E noi abbiamo fatto tutto questo per una ristrutturazione, che pur non essendo un intervento complesso ci ha costretto a passare da tantissimi organi di controllo”.
Non occorre supporre che tutto ciò sia accaduto perché la nostra casa è così particolare, malgrado ciò si trova “in un limbo”, mi dice Salerno. “Non è vincolata dalla Soprintendenza, non ha cioè un particolare pregio storico-architettonico, però ricade in un vincolo paesaggistico, e sta pure in un vincolo tipologico: è una casa colonica della collina pistoiese e per questo deve rispettare certe regole più stringenti. Noi infatti non facciamo una ristrutturazione o una manutenzione straordinaria ma un restauro conservativo, e il vincolo che c’è su questa casa è un vincolo morfologico. Dobbiamo cioè rispettare i caratteri tipologici ed estetici della casa colonica della collina toscana. Per autorizzare interventi di questo tipo c’è bisogno del parere discrezionale di una commissione, che stabilisce se gli interventi sono idonei. Nel vostro caso ci abbiamo avuto a che fare per quanto riguarda la finestra dell’annesso sul retro, dove faremo il bagno principale”. Ottenere il permesso di aprire una finestrella sul giardino è stato molto complicato. “Ci hanno detto che potevamo farla, ma più piccola di come l’avevo disegnata. Abbiamo potuto chiedere di aprirla proprio perché era sul retro e per di più sul muro di un annesso: di quello cioè che era un fienile o un deposito. Anche l’ultimo piano ha un bagno sul retro, ma essendo nel corpo principale dell’edificio neanche ci abbiamo provato a chiedere se potevamo aprire una finestra pure lì, ci avrebbero detto di no. Il secondo parere che abbiamo chiesto è di tipo ambientale, perché questa casa non aveva le fogne e quindi abbiamo dovuto rispettare una serie di norme per realizzare gli scarichi delle acque”.
Mentre passeggiamo tra le stanze scrostate mi viene in mente che uno di questi muri di mattoni mi piacerebbe tenerlo al vivo, non sembra troppo contrario ma non vuole cambiare discorso. “Ognuno di questi passaggi produce scartoffie, la cosa assurda della burocrazia è che non abbiamo sistemi informatici in grado di reggere questa mole di incartamenti: io ho dovuto compilare almeno venticinque volte un modulo con i vostri e i miei dati. Questa è la burocrazia: non c’è una banca dati, per cui una volta registrate le informazioni, sono quelle. Ho mandato una CILAS (la Comunicazione di inizio lavori asseverata ad hoc per il Superbonus), una SCIA (la Segnalazione di certificato inizio attività), un Preparere e un Preparare ambientale”.
Mentre lo dice ricordo che per la SCIA ha dovuto realizzare una Relazione tecnica andando a ripescare le carte del Catasto Leopoldino, mappe che descrivono dettagliatamente la zona dimostrando che nel ’700 la casa che abbiamo comprato ancora non c’era, dettaglio che la sottrae per pochi metri alla giurisdizione della Soprintendenza, come si nota nella Tavola dei Vincoli (!). Per chi fosse curioso qui si può dare un’occhiata al dedalo urbanistico-catastale previsto per qualunque intervento di ristrutturazione dal Comune di Pistoia. “Ognuno dei documenti di cui ti ho parlato ho dovuto consegnarlo almeno due volte, e ognuno di questi incartamenti ha almeno dieci moduli in cui le vostre anagrafiche sono ripetute più di una volta… È una perdita di tempo incredibile ed è tutto tempo che viene sottratto al progetto – al vostro come agli altri. Così come l’architettura è quel 10% che si riesce a inserire tra le maglie della burocrazia, anche il mio tempo dedicato all’architettura è al massimo il 10% che non viene risucchiato da questi adempimenti”.
“Abbiamo dovuto preparare le carte, inviarle alla commissione, che poi ce le ha rimandate imponendoci delle modifiche: ad esempio non ci ha fatto mettere i pannelli fotovoltaici sul tetto ma ci ha concesso di metterli su degli elementi esterni, così abbiamo ampliato un pergolato per appoggiarci il fotovoltaico, ma nelle note che ci hanno mandato indietro ci hanno detto di ridurre la quantità di pannelli, che altrimenti si sarebbero visti dalla strada…”
Nell’epoca del collasso ambientale e nel contesto di interventi che si chiamano di efficientamento energetico non è assurdo che non si possano mettere i pannelli fotovoltaici sul tetto? Oltretutto siamo in campagna, non accanto al Duomo di Siena – commento non senza disperazione. “La conflittualità che c’è tra la tutela del paesaggio e il rinnovamento energetico è un tema da approfondire. Io amo le pale eoliche, se ne parli in Toscana ti prendono per matto: deturpano il paesaggio, dicono. In realtà nella storia dell’umanità c’è sempre stata questa dialettica tra evoluzione tecnologica e conservatorismo legato alla tutela paesaggistica: in Olanda c’era chi non voleva i mulini a vento. Bisogna vedere se un ponte, una ferrovia o una strada sono osceni o finiscono per diventare parte della cultura, e quindi del paesaggio…”
Mentre racconta mi torna in mente un arabesco degno di Mozart piazzato dal Leviatano della burocrazia italiana giusto prima dell’estate. Accortisi che le pratiche per il Superbonus 110% erano troppo complesse i burocrati hanno imposto di rifarle, dato che nel frattempo le avevano semplificate. “Con la semplificazione hanno stabilito che tutti gli interventi del Superbonus vanno con una pratica a sé che si chiama CILA Superbonus, ma se tu fai dei lavori che vanno al di là del Superbonus, come capita sempre, devi inviare una pratica di CILA Superbonus per i lavori del Superbonus, e un’altra pratica che nel nostro caso era una SCIA per i lavori di ristrutturazione”.
Non ricordo esattamente tutto quello che è successo a partire dal giorno in cui abbiamo comprato casa ma azzardo un elenco, può essere istruttivo per chi voglia imbarcarsi in un’impresa del genere. Abbiamo dovuto chiedere di fare la finestra, quindi aspettato una risposta per le fogne, abbiamo discusso dei pannelli fotovoltaici, del riscaldamento a terra – che poi abbiamo scartato perché nel frattempo erano raddoppiati i costi ma che dal Comune non volevano farci fare malgrado ci fosse un’esenzione regionale riguardo l’altezza minima dei solai, su cui a un certo punto l’architetto si era giustamente impuntato… (l’esenzione c’era, il dettaglio non poteva dunque ricadere sotto l’insindacabile parere del burocrate – che in questo caso era una burocrate, li immaginavo sempre uomini questi polverosi esecutori, e invece…). Tutto questo ci ha fatto perdere tempo e pur avendo comprato casa in aprile in un lampo è arrivata l’estate, a causa del Superbonus 110% nel frattempo si sono alzati i prezzi ed è impazzito il mercato delle imprese, i lavori così sono iniziati a novembre, impostati come lo Stato, tramite i finanziamenti, ci aveva – a noi come a molti altri – in qualche misura suggerito di fare, fatto salvo che proprio in ragione dei ritardi causati dal complesso meccanismo burocratico, abbiamo dato il tempo al Leviatano di far scattare la tenaglia del Decreto Antifrode.
“Ho consegnato il preparere ad aprile – a prescindere dalla finestra era un passaggio obbligato essendo un restauro morfologico – e il Comune si è preso tre mesi per decidere su questa minuzia. Mi hanno rimandato le carte e ho dovuto cambiare tutto in base alle loro osservazioni, a quel punto si sono presi un altro mese per darci un parere definitivo. Per le fogne è successa la stessa cosa. Quattro mesi di burocrazia pura. Poi sono partite le scartoffie del Superbonus, che impongono un controllo sui lavori e sulla contabilità, e che però ci ha costretti a una contabilità un po’ assurda… Noi oggi stiamo facendo un saggio su un solaio e se è diverso da quello che ipotizziamo, il progetto va cambiato. Le ristrutturazioni sono fatte di cose che non si vedono, immaginarle prima è in parte impossibile, alcuni dettagli li scopri mettendoci le mani”.
Mi viene in mente che il meccanismo degli incentivi abbia complicato non poco la vita degli architetti, Salerno sembra concordare: “Gran parte del lavoro di uno studio di architettura come il nostro si basa su interventi più piccoli, slegati dalla logica del Superbonus, interventi normali che col Decreto Antifrode sono diventati complessi da gestire quanto il Superbonus. Di fatto hanno esteso la burocrazia e la contabilizzazione di questa misura eccezionale che è il 110% alla misura più ordinaria che c’è: la ristrutturazione con detrazione al 50%. Prima per fare una ristrutturazione facevamo un progetto, quindi un computo per far fare un preventivo alle imprese, si andava in cantiere, si aggiornava la contabilità per il cliente, lui presentava le fatture all’Agenzia delle Entrate o alla banca per avere le detrazioni e stop. Ora, se si vuole ottenere la cessione del credito, bisogna produrre la stessa burocrazia del Superbonus: una contabilità severissima basata su prezzari regionali, una asseverazione – quindi una presa di responsabilità sulla contabilità dei lavori, che prima non ci era richiesta, e per cui ora gli architetti diventano responsabili anche dei conti che si fanno su una ristrutturazione. Una serie di cose che inevitabilmente finiscono per ridurre ancora di più il margine di tempo che possiamo dedicare ai progetti. Tutto questo discorso sulle detrazioni distoglie l’attenzione da un principio elementare che a volte si dimentica: gli architetti fanno i progetti. Questo sanno fare. Questo dovrebbero fare. A volte tra tutte queste scartoffie ci sentiamo come Pessoa, dei poeti che lavorano all’INPS”.
A questo punto non posso non chiedergli, oltre a far impazzire noi, a cosa serva il Decreto Antifrode. “È stato introdotto perché hanno scoperto un’evasione di 880 milioni di euro. Per questo hanno tolto discrezionalità alle persone. Alla fine la burocrazia è una questione di legalità, ecco perché in Italia si tende a normare tutto. Metà dei progetti che abbiamo è di persone con i soldi contati tipo te, gente che ora è in difficoltà. Il problema non è la misura in sé, che è anche condivisibile, è che serve una progettualità: io devo capire se col mio studio possiamo fare investimenti, se possiamo prendere qualcuno a collaborare per esempio… Serve una progettualità di tre o quattro anni, se cambiano le regole ogni sei mesi è un problema, in questo modo finiamo per lavorare quasi gratis o comunque non riusciamo a valutare bene gli investimenti, e lo stesso vale per le imprese”.
Alla fine gli domando se almeno tutto questo ha fatto davvero ripartire l’economia. “La storia dei bonus più che spingere l’economia ha avuto un altro risultato: ha eliminato il lavoro nero in edilizia. Minare questo sistema significa favorire un ritorno ai pagamenti in nero, il che rischia di essere un gran passo indietro”.
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Source: elledecor.com
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