Le sanzioni non sono pesanti: 42 euro, che diventano 87 se ci sono curve, incroci, visibilità limitata, forti discese, scuole, edifici, passaggi stretti o, semplicemente, «nelle ore notturne». Conseguenze sulla patente? Nessuna: non sono previste né la decurtazione di punti né la sospensione.
Dimostrando invece un notevole superamento dei limiti di velocità, si passa all’articolo 142, dove le sanzioni diventano consistenti: chi sfora di oltre 40 km/h deve pagare 543 euro, perde sei punti e resta con la patente sospesa da uno a tre mesi. Sforando di oltre 60 km/h, si pagano 845 euro, si perdono 10 punti e la sospensione della patente dura da sei a 12 mesi.
Così, per quanto s’intuisce dalla scarna ordinanza della Cassazione, l’equipaggio dei Carabinieri deve aver “giocato la carta” dell’articolo 142. Verosimilmente, hanno utilizzato il comma 6, che definisce le rilevazioni di autovelox e simili come «fonti di prova», sottintendendo che possono anche esserci altre fonti.
Perché la multa non regge davanti alla Cassazione
Solo che, secondo la Cassazione, il tachimetro non può essere una di queste fonti. I giudici non dubitano che gli agenti abbiano letto sull’indicatore una velocità di 160 km/h, perché il verbale fa fede – fino a querela di falso – sui fatti attestati dal pubblico ufficiale «come avvenuti in sua presenza e conosciuti senza alcun margine di apprezzamento o da lui compiuti». Lo stabilisce l’articolo 2700 del Codice civile, nell’interpretazione consolidata che ne dà la Corte (per esempio, nella sentenza 23800/2014).
Ma questa «fede privilegiata non si estende agli apprezzamenti ed alle valutazioni del verbalizzante» o «ai fatti della cui verità si siano convinti in virtù di presunzioni o di personali considerazioni logiche». E in questo ambito rientra il ritenere che i 160 km/h letti sul proprio tachimetro siano da attribuire con certezza al veicolo inseguito.
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