Storia dell’articolo
Questo articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2014 alle ore 07:13.
L’ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 15:21.
Sono i numeri, prima di ogni altra cosa, a raccontare come quello della tassazione immobiliare continui a rappresentare un vero e proprio nervo scoperto della politica fiscale. Lo è per il livello del prelievo. Lo è per la complessità delle regole. Lo è soprattutto per la tendenza – che accomuna tutti gli ultimi governi – a trasformare le tasse sul mattone in una sorta di bancomat da offrire ai sindaci per compensare i tagli ai trasferimenti decisi dal centro.
Il Parlamento dovrebbe dare oggi il via libera al decreto che contiene le ultime norme per applicare le nuove imposte sulla casa nel 2014. Diciamo subito che per i proprietari – sia per le famiglie sia per le attività produttive – non saranno affatto buone notizie. E chi si era illuso o aveva sperato che la nuova Iuc e la bipartizione Tasi-Imu avrebbero risolto almeno qualche problema si dovrà probabilmente ricredere.
I numeri, si diceva. Nel 2014 le due imposte sugli immobili garantiranno un gettito di 24 miliardi, che potranno salire a quasi 26 se i comuni – come sembra probabile – utilizzeranno diffusamente l’ulteriore margine di manovra sulle aliquote (aumento della Tasi fino allo 0,8 per mille oltre i tetti massimi del 2,5 per mille sull’abitazione principale e del 10,6 per mille della somma di Imu e Tasi sugli altri immobili) concesso proprio dal decreto legge in via di approvazione definitiva.
Una concessione fatta per una nobile finalità, vale dire per finanziare le detrazioni sulla prima casa, in particolare per le famiglie meno abbienti. Peccato che, di fatto, non esistano vincoli per i Comuni e le notizie che giungono dalle città mostrano come le amministrazione siano orientate a concedere sconti con una certa parsimonia.
Basta guardare indietro per rendersi conto che dopo una serie interminabile di commi, leggi e decreti, la situazione non si è molto scostata da quanto successo nel 2012. Nel primo anno di applicazione dell’Imu in sostituzione dell’Ici, gli incassi totali hanno raggiunto i 24,8 miliardi di euro, quasi il 170% in più rispetto ai 9,2 miliardi che aveva garantito l’Ici dei comuni l’anno precedente.
Certo, l’Imu nasce nei giorni bui della crisi finanziaria, l’autunno del 2011, e l’imposta sul mattone è stata (insieme alle pensioni) il piatto forte e doloroso della “cura Monti”: reintroduzione del prelievo sull’abitazione principale, aumento dei coefficienti catastali, ampia autonomia di manovra sulle aliquote concessa ai sindaci (ampiamente utilizzata). L’anno scorso, con l’esenzione della prima casa (non integrale, a causa delle mini-Imu arrivata a dicembre), il gettito si è fermato a 20 miliardi, con qualche aggravio per le seconde case (libere e affittate) e per gli immobili produttivi.
Il copione, come accennato, è destinato a ripetersi quest’anno. Anzi, a peggiorare rispetto al già nerissimo 2012. La Tasi sulla prima casa, si dirà, sarà complessivamente inferiore all’Imu del 2012. Il che è vero. Ma come accade in questi casi, nella combinazione tra aliquote e (poche) detrazioni non di rado i proprietari si troveranno a rimpiangere la vecchia Imu. Per gli “altri” immobili – i negozi, gli studi, i capannoni – i rincari saranno quasi una certezza.
Il nuovo governo ha ereditato dal precedente questa complessa situazione. Avrà, in questi mesi, il compito di avviare la riforma del Catasto che, ovviamente, è fondamentale per restituire equità e coerenza al sistema di tassazione degli immobili, ma che da sola non risolverà il problema (anzi, paradossalmente lo potrebbe amplificare) di un livello di prelievo difficilmente sostenibile. Una riflessione è urgente. Ed è urgente che anche il governo ne prenda atto.
Permalink
Link all’articolo Originale tutti i diritti appartengono alla fonte.