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Industria auto: arriveranno sicuramente incentivi di Stato per veicoli elettrici e colonnine. Ma intanto… – Industria Italiana – NEWS110

Stellantis e TheF Charging

Arriveranno: sia gli incentivi all’acquisto delle auto elettriche che le misure per favorire l’infrastrutturazione di ricarica. Benché il governo abbia saltato a piè pari la grande occasione di inserire questi interventi nella Legge di Bilancio, dove non c’è nulla, è lecito rimanere ottimisti. È solo questione di tempo. Per una ragione semplice e chiara: non si può farne a meno. Senza queste misure, infatti, i veicoli green sono destinati a rimanere al palo, in Italia. E con essi i carmaker, che hanno già i loro guai a causa del rialzo del costo delle materie prime e dell’energia, e dell’irreperibilità dei microchip. Nel 2021 in Italia le immatricolazioni sono calate del 24%, e la produzione dell’industria automobilistica ha perso il 9,4%. In questa fase, dunque, aprire il portafoglio è per l’esecutivo un imperativo categorico. Perché? La situazione europea ce lo spiega. L’auto elettrica costa parecchio di più di quella a motore termico. Si diffonde con velocità in quei Paesi dove il reddito medio degli abitanti consente l’acquisto. Tipicamente, sopra il 50° parallelo. Sotto, l’avanzata del green è al rallentatore. In un certo senso, il veicolo sostenibile ha spezzato il Vecchio Continente in due. Che lo si voglia ammettere o meno, sono gli Stati più poveri che devono mettere i propri cittadini nelle condizioni di comprare, altrimenti il meccanismo non funzionerà mai. Quanto alle “colonnine”, la loro diffusione riflette il grado di organizzazione dello Stato. E anche qui, più a Nord si va e meglio è. Italia, Spagna e Grecia sono chiamate a mettersi rapidamente al passo.  Dei Paesi dell’Est si può anche non parlare, perché tanto sono già fuori gioco.

Di qui le reiterate richieste di intervento dei sindacati al governo. E di qui, qualche giorno fa, l’appello di #ActionPlan4eMobility, sigla che per l’occasione riunisce enti rappresentativi di tutta la filiera dell’industria automobilistica, consumatori compresi: AdiconsumAnfiaAnieAssofondClass OnlusMotus-EUcimu.  Si chiede all’esecutivo di fare come la Germania, la Francia, e la Spagna, che per la causa dell’auto green hanno stanziato rispettivamente 4 miliardi, 1,4 miliardi e 800 milioni. Il governo ha risposto che per ora non ha agito solo per questioni contingenti e che valuterà presto la situazione; e il Mise in particolare ha lasciato intendere che qualcosa si farà e che sta pensando agli ecobonus. Stiamo a vedere. Più complicata è la situazione della componentistica auto. Questa è un’industria importante per il Paese, con punte di diamante come BremboSogefiMarelliLandi Renzo, Dell’Orto. Il Mise prevede un’ecatombe, che metterebbe fuori gioco ben 101 imprese: non sono quelle citate, ma altre che non possono adattare il proprio prodotto al green. In vista di obiettivi europei sulle emissioni zero, il diesel sta precipitando, e con esso tutto il mondo di chi costruiva pezzi di questi motori. È un problema grosso, quella della riconversione industriale delle imprese di filiera; ma, per ora, nessuno conosce la soluzione.

L’armageddon dell’industria automobilistica in Italia

Ferdinando Uliano, segretario nazionale Fim-Cisl

Si diceva del calo di immatricolazioni, e di quello della produzione.  Nel 2021, l’unico dato in aumento è quello della cassa integrazione: a novembre dello scorso anno, ultimo dato disponibile, si era giunti a quota 56,3 milioni di ore, contro i 26,4 milioni di tutto il 2020. Non è difficile che nel 2021 si sia superata la soglia dei 60 milioni. Un sostanziale raddoppio, con un impatto negativo sui salari dei dipendenti. Negli stabilimenti del principale produttore in Italia, Stellantis, l’occupazione è calata da 1.702 dipendenti del 2020 ai 1.518 del 2021 (-10,8%); con diminuzioni particolarmente accentuate a Cento (- 17%) e a Verrone (-16,2%).

Quanto alla componentistica, si aprono tavoli di crisi. «Vitesco, Denso e Bosch dicano che a causa del cambio della motorizzazione, da termico a elettrico, ci saranno 4mila esuberi. Circa 1.700 per Bosch, 700 a Vitesco e 700 a Denso. Ma a questi vanno aggiunti 1.200 dell’indotto. I calcoli si fanno presto» – afferma il segretario nazionale della Fim Cisl per le politiche contrattuali e l’automotive Ferdinando Uliano.  A questi vanno aggiunti i casi di Gkn, Speedline, Gianetti Ruote, Caterpillar Timken. «In questi casi il problema non è il cambio di motorizzazione, ma la situazione generale. Della quale queste imprese hanno risentito molto, nei ricavi; pertanto, si avviano a produrre altrove» – continua Uliano.

Le ragioni della disfatta

Una transizione troppo veloce

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea

Com’è noto, il disegno della Commissione Europea è quello di fare del Vecchio Continente il primo ad impatto climatico zero. Anche prima del Green Deal, l’ente attualmente guidato da Ursula Von Der Leyen aveva preso, negli ultimi 10 anni, un insieme di misure per contenere le emissioni; l’obiettivo generale era quello di sostituire il motore termico con quello elettrico. Da qualche anno, i carmaker hanno investito pesantemente in piattaforme green. Meno di tre anni fa la spesa dei vari Ford, Volkswagen, Audi, General Motors, Stellantis e Renault per l’electric vehicle e tecnologie correlate aveva raggiunto la soglia dei 300 miliardi di dollari a livello globale; ma Reuters stima che supererà i 500 miliardi entro il 2030. Secondo l’Acea (associazione dei carmaker europei) la quota del diesel sulle vendite nel Vecchio Continente si è praticamente dimezzata: dal 52% del 2008 a circa il 30% del 2020.  Il declino è continuato nel 2021, tanto che secondo il Financial Times, nel mese di dicembre 2021 le full electric hanno compiuto uno storico sorpasso nei confronti dei modelli a gasolio: circa 176 mila le prime vendute contro 160mila vetture diesel.

D’altra parte, la direzione è chiara. Un particolare pacchetto del Green Deal (Fit for 55) prevede la riduzione del 55% delle emissioni delle automobili entro il 2030, e zero emissioni entro il 2035. Non si venderanno più motori termici, né ibridi. Solo total green. Questo passaggio, però, è destinato a lasciare cadaveri sul campo di battaglia. Anzitutto i carmaker si sono esposti finanziariamente, ma è difficile che possano ottenere un Roi se non in tempi lunghissimi. Questo comporta una sostanziale ristrutturazione dell’industria di comparto, che avrà senz’altro meno dipendenti.

In Italia, come si accennava, a rischio sono soprattutto i componentisti auto, un vero pilastro della manifattura made in Italy (che, come abbiamo detto più volte, si regge su componentistica auto, siderurgia, macchinari e chimico-farmaceutico), dal valore ormai superiore a quello dell’industria automobilistica propriamente detta. Nel 2020 questi hanno fatturato, in Italia, 45,6 miliardi, con 160mila dipendenti; l’anno prima, però, i numeri erano questi: 50,8 miliardi e 164mila dipendenti. Si diceva delle stime del Mise: le aziende che potrebbero scomparire valgono il 17% della quota dipendenti e del mercato nazionale. Il motivo di tanto pericolo è semplice: «Meno componenti auto, meno componentisti auto» – sintetizza il presidente di Econometrica e Centro Studi “Promotor” nonché docente di Comunicazione all’università di Bologna Gian Primo Quagliano. L’auto elettrica è strutturalmente più semplice. Il motore è una dinamo inversa, e non ha bisogno di iniettori, di pistoni e bielle e tanto altro: chi per mestiere realizza questi pezzi, deve appunto cambiare mestiere. Chi invece produce freni o ruote, deve adattare la produzione a mezzi assai più pesanti, a causa delle batterie.

Lo shortage delle materie prime, ed in particolare dei microchip

Luca De Meo, il manager italiano che è ceo worldwide del Gruppo Renault, con la nuova concept car Mégan eVision

Il ritorno alla produzione, dopo il periodo di inattività forzata del lockdown, ha dato vita ad un fenomeno di portata globale: la carenza delle materie prime associata ad un forte aumento dei prezzi. Rispetto ad un anno fa, quello di certi polimeri ha segnato un rialzo di oltre il 100%; quello dell’acciaio di circa il 50%.  Tra le cause, la disarticolazione delle filiere, la necessità di ricostituire le scorte, l’incremento dei noli marittimi e altre. «Si fatica a trovare anche il manganese, che serve per le lamiere; e anche l’alcantara, il tessuto che riveste i sedili, è diventato un materiale raro, perché a causa del costo dell’energia la produzione è diminuita» – afferma Quagliano. Tutti questi guai, dalle materie prime al costo dell’energia, non sono un’esclusiva dei carmaker o dei componentisti auto: caratterizzano quasi tutta la manifattura. Secondo Quagliano, sono problemi transitori: «In buona parte, saranno superati entro l’anno». Molto impattante sull’industria automobilistica è stato ed è il citato problema dei microchip: «Ce ne sono 3mila in un’auto» – prosegue Quagliano. E da mesi non si trovano più.  «La Cina ne ha fatto incetta, perché con il lockdown è aumentata la diffusione di device di vario genere».

Per il direttore di Anfia Gianmarco Giorda «nel 2021 più di un decimo della produzione è stata neutralizzata a causa dello shortage di semiconduttori. Questo a livello nazionale, ma anche globale, visto che al mondo quasi otto milioni di auto non sono state prodotte a causa di ciò, e benché la relativa domanda ci fosse. Va tenuto anche conto del fatto che lo shortage ha determinato ritardi significativi nella consegna e nelle immatricolazioni, normalmente dai sei ai dieci mesi, scoraggiando i potenziali acquirenti». E per l’anno in corso? «Dovremmo imparare a convivere con il problema, che è lontano dall’essere risolto. Probabilmente, lo sarà il prossimo» – termina Giorda.

Il costo e la diffusione dell’elettrico

Brembo
Pinza dei freni Brembo Honda Civic FK8 Type R con pneumatici da 21 pollici

Si è citato il dato soddisfacente della diffusione del full electric in Europa. In Italia non funziona così. «Siamo al 10% delle vendite. Considerato l’ibrido, che prevede anche il motore termico, la quota sale al 20%» – afferma Giorda. Perché da noi il green non è decollato? Per intendere come potrebbero andare le cose in Italia, si finisce spesso per citare i primi della classe, come la Norvegia, dove il full electric è a quota 54%. Ma lo si fa a sproposito, per un insieme di motivi.

Il più importante è, in un certo senso, legato all’allarme del Ceo di Stellantis Carlos Tavares (sul Corriere della Sera): «Rischiamo di perdere la classe media, la quale non potrà più comprare auto». La questione è quella del costo delle auto elettriche, che è una volta e mezza quello di un veicolo a motore termico. Già di per sé l’auto non è più uno status-symbol, almeno per il significato sociale che si poteva conferire alle quattro ruote negli anni Ottanta. Se poi si va a vedere il reddito medio nel Vecchio Continente, non stupisce che in Norvegia, dove questo è doppio che in Italia, i veicoli green abbiano già riscosso un grande successo, mentre nel Belpaese si preferisca mantenere in vita il vecchio parco macchine che ha in media 25 anni di età. La differenza la fanno i soldi. L’auto elettrica divide l’Unione Europea in ricchi e poveri.

Che il problema principale sia questo se ne è accorta anche l’Acea: «C’è una netta divisione nell’accessibilità delle auto elettriche tra Europa centro-orientale ed Europa occidentale, oltre a un marcato divario Nord-Sud» – ha spiegato Eric-Mark Huitema, direttore generale dell’associazione. Di fatto, l’auto elettrica si afferma dove il Pil pro-capite supera i 40mila euro, e dove il reddito medio è almeno del 50% superiore a quello italiano. Tipicamente, i ricchi Paesi del Nord, come i Paesi Bassi, la Finlandia, la Danimarca e la Svezia.

Per Quagliano «il problema del costo è però solo temporaneo; fra qualche anno, quando saranno state realizzate le economia di scala, ora inesistenti, per le auto elettriche si spenderà di meno». Ma nel frattempo che si fa?

Gli incentivi e gli interventi strutturali sono una necessità

Carlos Tavares, ceo di Stellantis, (sul Corriere della Sera): «Rischiamo di perdere la classe media, la quale non potrà più comprare auto». La questione è quella del costo delle auto elettriche, che è una volta e mezza quello di un veicolo a motore termico

«Da noi senza incentivi non decolla, l’auto elettrica: non può farlo» – taglia corto Quagliano.  Ha ragione. I problemi descritti sopra non possono essere superati dalle case automobilistiche, né lasciati gravare sugli acquirenti. La responsabilità non può che ricadere sul decisore politico. La partita è esclusivamente nelle sue mani. «Non si può forzare i tempi della transizione green dell’auto senza immaginare un insieme di iniziative di sostenibilità industriale e di sostegno ai lavoratori. Un intervento è assolutamente indispensabile» – afferma Uliano.

Solo che il decisore politico cambia: non stiamo parlando della Commissione europea, ma del governo.  E gli interventi che si chiedono hanno una duplice natura: quelli di sostegno all’acquisto; e quelli di aiuto alla reindustrializzazione della componentistica e alla infrastrutturazione. Solo che per ora l’Esecutivo ha lasciato l’auto a secco.

Nella citata missiva di #ActionPlan4eMobility si legge che «nella Legge di Bilancio 2022 è totalmente assente una strategia per la transizione energetica del settore automotive e per lo sviluppo delle infrastrutture di ricarica private. Senza interventi strutturali, molto probabilmente nel 2022 la quota di mercato dei veicoli a zero o ridottissime emissioni precipiterà Senza interventi l’Italia sarebbe meno competitiva nel confronto con altri Paesi, dove articolati pacchetti di misure pro mobilità elettrica agevoleranno una rapida accelerazione nell’installazione di una capillare rete di infrastrutture di ricarica anche privata».

Il governo ha lasciato intendere che interventi ci saranno. Il viceministro allo Sviluppo Economico Gilberto Pichetto Fratin ha affermato che era sua intenzione promuovere la stesura di un provvedimento di sostegno al prezzo di «almeno un miliardo»; tuttavia, «sono arrivati i rincari delle materie prime e la necessità di limitare l’aumento delle bollette».  Cionondimeno, per il viceministro è intenzione del Mise «reintrodurre gli ecobonus per le vetture elettriche». Tempi e modi non sono noti.

Quanto alla politica, non è ferma: alla fine dello scorso anno si è dato vita ad un intergruppo parlamentare sull’industria automobilistica, dedicato alla mobilità green: dovrebbe indicare al legislatore possibili interventi. 

La misura degli incentivi all’acquisto delle auto

Simone Marinelli, responsabile auto e componentistica della Fiom Cgil

Che natura devono avere gli incentivi all’acquisto delle auto elettriche? E come devono essere erogati? Per il responsabile auto e componentistica della Fiom Cgil, Simone Marinelli, gli incentivi vanno collegati al reddito dell’acquirente o della sua famiglia.  «È vero che le auto elettriche costano più di quelle a motore termiche; ma è anche vero che se una persona è benestante, e vuole comprarsi una Tesla, la acquista a prescindere dagli incentivi. Mentre è certo che l’uomo medio, con uno stipendio medio, potrebbe trovarsi spiazzato dalla spesa. Per questo la Fiom ha una proposta chiara: agganciare gli incentivi all’Isee». In realtà l’idea non è nuova. Anzi: la legge di Bilancio 2021, in modo un po’ complicato e articolato, aveva introdotto lo sconto del 40% sulle auto elettriche di potenza fino a 150 kW e prezzo di listino inferiore a 36.600 euro Iva compresa. Poi, in realtà, tutto il meccanismo è rimasto bloccato. Il solito pasticcio all’italiana. Non era stato previsto, nella legge, il meccanismo del credito di imposta per le concessionarie che scontavano l’auto e poi acquisivano questo bonus. Dunque, per queste ultime il bonus era «tamquam non esset». Cose da pazzi, si dirà. Forse, ma non è colpa di chi scrive. Ora, la Fiom vorrebbe riproporre il bonus anche rafforzato, e vorrebbe che fosse introdotto in maniera chiara ed efficace dal punto di vista giuridico.  Ma, stando a Marinelli, dal governo si fanno orecchie da mercante. «Per ora non ci ha neanche risposto».

Secondo Uliano, più che puntare sull’Isee, converrebbe agganciare il bonus alla tipologia della macchina. «Lo si colleghi alle auto più piccole, che poi sono quelle che sono nella disponibilità della famiglia media. Sarebbe un criterio più certo di quello dell’Isee; inoltre, il parco macchine più vecchio, quello da rinnovare, è appunto quello formato dalle vetture di massa. Dunque, al di là del fatto che così facendo si rimetterebbe in moto il mercato favorendo i meno abbienti, ci sarebbero anche dei benefici ambientali».

E a quanto dovrebbero ammontare gli incentivi? Per #ActionPlan4eMobility occorre la «prosecuzione dell’ecobonus nel triennio 2022-24 con una progressiva rimodulazione degli incentivi nel tempo».  Per Giorda «il supporto triennale dovrebbe avere un valore di almeno un miliardo all’anno. Peraltro l’erario non ci perderebbe: infatti, aumenterebbero le entrate Iva e quelle per altre imposte. Insomma, non si tratterebbe di un costo, ma di un investimento».

Non solo incentivi: occorre governare la transizione dell’industria automobilistica

Il problema delle infrastrutture

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In Italia c’è solo il 5,8% di tutte le stazioni di ricarica per auto elettriche dell’Ue, benché sia un Paese di 300mila km quadrati e 60 milioni di abitanti. Nei Paesi Bassi, benché abbiano una superficie pari a Veneto ed Emilia-Romagna messe insieme e una popolazione simile a quella del Lazio, la quota è del 29,7%. Si narra di turisti olandesi che, giunti in Italia centrale la scorsa estate con l’auto elettrica, siano tornati indietro per carenza di “colonnine”. Altri Paesi con popolazione (Francia) e territorio (Germania) poco superiori ai valori italiani, hanno quote più consistenti: 20,4% e 19,9%.

Così come Pil pro-capite e reddito, anche la diffusione delle colonnine spacca l’Europa a metà. Anche qui, i Paesi più infrastrutturati sono tipicamente quelli più ricchi e organizzati; e, rileva l’Acea, esiste una forte correlazione tra la capillarità dei device di ricarica e la vendita di auto green. Per i costruttori europei la situazione è «preoccupante».  Gli Stati, secondo loro, non stanno facendo abbastanza.

Quanto all’Italia, per #ActionPlan4eMobility occorrono «interventi per le infrastrutture di ricarica private: prosecuzione del credito di imposta del 50% per le utenze domestiche, le piccole imprese e partite Iva e una misura per lo sviluppo della ricarica all’interno dei condomini. Andrebbe inoltre aggiunta l’inclusione delle spese per la ricarica nei sistemi di welfare aziendale, come oggi già avviene per le carte carburante, e la previsione di una specifica tariffa elettrica dedicata alla mobilità privata, simile alla tariffa domestica».  

La reindustrializzazione della componentistica auto

Qui la questione è molto più complicata di quella delle colonnine. Nessuno sa veramente cosa fare e come farlo. Anche #ActionPlan4eMobility si limita a chiedere «misure a sostegno della riconversione industriale e dei lavoratori, indispensabili per non perdere competitività».

Link all’articolo Originale tutti i diritti appartengono alla fonte.

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