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La parabola di Grillo (e l’occasione perduta) di – doppiozero

La parabola di Grillo (e l'occasione perduta) di - doppiozero

Nelle fasi di cambiamento, ci ha insegnato Claudio Meldolesi, i comici possono farsi protagonisti della scena politica. Ma quando la politica inizia a riprendere il suo normale corso, vengono emarginati e si riducono a comparse, ora tollerate ora imbarazzanti. È il percorso di Beppe Grillo dai trionfi elettorali del 2015 e del 2018, quando il Movimento 5 Stelle è diventato il partito di maggioranza relativa in Italia, fino all’uscita dalla scena pubblica con un ultimo colpo di genio, nel febbraio 2019. Per dissimularsi tra la folla dei giornalisti e dei paparazzi, aveva indossato un’ultima maschera, quella con il suo stesso volto. A livello simbolico, il messaggio era chiaro: Grillo tornava a essere Grillo.

Come creatura politica, il grillismo è nato dalla convergenza di anime e strutture diverse. L’ispirazione personalista e carismatica incarnata da Beppe Grillo. L’infrastruttura tecnocratica incarnata dal profeta Gianroberto Casaleggio (con l’uso politico dei big data e una piattaforma come Rousseau). La promessa della democrazia diretta (l’uno vale uno dei meet up e delle votazioni online). Infine, dopo il trionfo elettorale del 2018, la necessità di darsi la struttura di un tradizionale partito (vedi su doppiozero Dove va Grillo e i suoi blog / M5S e le tre direttrici).

Questo mix di aspirazioni e necessità era il frutto di una radicale mutazione sociale e storica. C’è il lato oscuro della medaglia: la crisi delle tradizionali forme di rappresentanza, la disaffezione nei confronti della democrazia (vedi su doppiozero Sintomi e rimedi / La democrazia: governo della crisi o modello in crisi?), un diffuso risentimento nei confronti del sistema di potere e dell’informazione, la sfiducia e la diffidenza nei confronti della tradizionali agenzie formative e informative, oltre che delle multinazionali, la manipolazione del consenso consentita dall’uso dei big data.

Ma c’era anche un lato luminoso: un diffuso desiderio di partecipazione, le opportunità offerte dalle nuove tecnologie sia nella comunicazione (i social media e le comunità riflessive) sia per beni e prodotti (per esempio sul versante dell’energia e della mobilità), una diffusa sensibilità ambientale, l’attenzione ai diritti delle fasce più deboli, quelle escluse dai fasti della globalizzazione e del neo-capitalismo…

Le potenziali forme politiche che convivevano nel grillismo non sono riuscite a trovare una sintesi complessiva e nessuna di loro, singolarmente, ha retto alla prova dei fatti. 

I meet up, l’embrione di una possibile democrazia diretta, sono stati immediatamente sacrificati sull’altare della Realpolitik (vedi su Doppiozero Il movimento nella rete / M5S un fallimento digitale?). Le votazioni online si sono rivelate un imbarazzante fallimento, con poche decine di migliaia di votanti nelle occasioni chiave. Ancora peggio ha funzionato il talent show per selezionare i candidati alle elezioni: poche decine di voti sono bastati a scegliere (e a far eleggere) personalità fragili e impreparate, a volte semplici balordi. 

Nel 2016 la morte di Gianroberto Casaleggio ha di fatto sancito la separazione tra la macchina “analytica” e il partito: al visionario Gianroberto è succeduto il figlio Davide, dopo il geniale (e per certi aspetti inquietante) visionario è arrivato un contabile attento solo al proprio tornaconto (vedi su doppiozero Scompare il fondatore del Movimento 5 Stelle / Casaleggio, l’uomo che ha inventato il Grillo 2.0). 

Il carisma del leader, diventato a quel punto “l’Elevato”, si è appannato: appena prima della pandemia, nel febbraio 2020 era stata annullata persino la tournée teatrale di Terrapiattista, l’ultimo show del comico ex politico. 

Era rimasto il partito: una scelta obbligata per chi aveva occupato un terzo dei seggi del parlamento, che si è trovato costretto a imboccare la strada della mediazione (visto che non era più possibile imporre a tutto il paese le scelte prese a maggioranza dagli “aventi diritto” nelle votazioni interne). Oggi il disastro è sotto gli occhi di tutti: l’opportunismo ha portato il M5S a governare contrattando alleanze di ogni tipo, con una disinvoltura ancora maggiore del PD (che da decenni rappresenta l’unico punto d’equilibrio del disastrato sistema di potere italiano). 

Giuseppe Conte era stato scelto come premier proprio per la sua mediocrità. Si è rivelato un traffichino arrogante e pasticcione, e non gliene va bene una. Con l’aggiunta di qualche trovata da avvocaticchio di provincia, si comporta come un Bertinotti qualunque, pronto a sfasciare tutto pur di mantenere la sua rendita di posizione, sempre più ridotta. Ma il vero problema non è Conte. Il disastro di Appendino e Raggi, che avevano trionfalmente conquistato Torino e Roma, è il sintomo del fallimento di una classe dirigente inadeguata e di un partito senza reale visione politica. 

Ma allora cosa resta dell’abbagliante parabola comico-populista?

Primo detrito è un folclore inquietante, ancor più ridicolo viste le tragiche vicende degli ultimi anni. Il nocciolo dell’esasperazione populista, quello da cui traggono energie la Lega, i fascisti e i 5 Stelle (oltre che Trump, Johnson e la Brexit, Le Pen, Bolsonaro…), è il risentimento nei confronti della violentissima mutazione economica e sociale determinata dalla globalizzazione e dal neocapitalismo. Di qui la diffusa diffidenza (per molti aspetti giustificata) contro la scienza, le multinazionali, il sistema dell’informazione, l’imperialismo degli USA, l’Europa… Così la pancia del movimento coltiva i No Vax, il rifiuto aprioristico di rigassificatori, termovalorizzatori e quant’altro, il complottismo dilagante, il putinismo e le strizzate d’occhio alla Cina. Tutto questo, magari condito di folclore bio e new age, ha trovato la sua incarnazione in influencer eretici come l’onorevole Alessandro Di Battista, il globetrotter movimentista laureato al DAMS di Roma, e l’onorevole Sara Cunial, profetessa antiscientifica laureata in chimica industriale a Padova. 

Nei suoi “comizi-spettacolo”, Grillo profetizzava una tecnologia “buona”, in grado di coniugare innovazione e sostenibilità contro l’avidità ottusa delle multinazionali globalizzate. Questo obiettivo lo sta facendo proprio il grande capitale internazionale, senza alcun controllo democratico e scientifico: a realizzare l’utopia di Grillo, trasformandola in status symbol, è oggi la Tesla di Elon Musk.
Il reddito di cittadinanza è la risposta assistenzialista a un Sud economicamente marginalizzato, ma sancisce anche il cambiamento dello statuto del lavoro nell’economia dell’automazione e dei lavoretti.

Nell’ottica del neocapitalismo, il lavoro non è più l’elemento prioritario di costruzione dell’identità e della dignità dell’individuo, lo strumento di progettazione del proprio futuro e di realizzazione personale. Il reddito è ridotto a un presupposto del consumo, che è la base del nuovo ordine sociale e che deve dunque essere garantito a tutti. Quella del reddito di cittadinanza è stata una delle due grandi vittorie politiche del Movimento 5 Stelle, che ancora gli garantisce una certa base elettorale (nello stile della vecchia DC assistenzialista). Ma è stata anche il grimaldello ideologico con cui, ai tempi della pandemia, è stato possibile garantire sostegni, ristori, bonus e superbonus a centinaia di migliaia di italiani, senza alcun reale controllo: errore imperdonabile nel paese dei furbacchioni.

L’altro successo politico del Movimento 5 Stelle è una vittoria di Pirro. La drastica diminuzione del numero di parlamentari, in nome della battaglia contro la Casta, così come l’abolizione dell’elezione dei consigli provinciali, riduce di fatto il sistema della rappresentanza e diminuisce le possibilità di scelta dei cittadini. Questa limitazione della democrazia rappresentativa, oltretutto, non è compensata da un allargamento della democrazia diretta: l’indicazione di Giuseppe Conte per l’astensione ai referendum sulla giustizia del 12 giugno 2022 è politicamente suicida, visto che nega valore al principale strumento di democrazia diretta del nostro ordinamento.

La parabola di Grillo e del suo movimento è l’ennesima occasione perduta della nostra storia politica. Avrebbe potuto essere un’opportunità per uscire dalla crisi della democrazia superando le tentazioni reazionarie, quella autoritaria dei fascisti e quella identitaria e localistica della Lega. Lascia un’ennesima disaffezione per la politica e il disagio rancoroso che Giorgia Meloni spera di intercettare. Aggiunge qualche comparsa alla sfilata dei leader autoreferenziali, con Di Maio e Conte accolti nella schiera patetica dei Berlusconi, dei Renzi, dei Calenda, dei Toti… per non parlare della galassia dei micropartiti settari di una sinistra che un tempo si definiva radicale.

È fin troppo facile dare tutte le colpe a Grillo, che oggi possiamo immaginare nella sua villa di Bibbona come una Norma Desmond sul Viale del tramonto: “Io sono ancora grande. È la politica che è diventata piccola”. Non basta nemmeno prendersela con Marco Travaglio, con il “Fatto Quotidiano” e con Bianca Berlinguer, che di tutto questo confuso e velleitario sommovimento sono diventati il querulo megafono. 

Perché al disagio profondo e alle istanze di rinnovamento che avevano trovato espressione nel movimento le forze politiche progressiste hanno risposto solo con l’anatema e l’esorcismo, e con un disprezzo che spesso ha coinvolto anche gli elettori del M5S. Non hanno nemmeno provato, quelle forze politiche, a dare una risposta alle domande che arrivavano dalla pancia (e dalle periferie) del paese, aprendo spazi di partecipazione, offrendo una visione del futuro, lanciando prospettive di sviluppo. 

Inevitabile conseguenza di questo atteggiamento è l’aumento dell’astensionismo. Fino alla prossima ondata populista, che sarà ancora più risentita, confusa, rancorosa. Regressiva. Intanto a Palazzo Chigi le comari hanno ricominciato a litigare mentre il mondo brucia.

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