Sul tavolo della Commissione europea sono arrivati per ora 23 dei 27 Piani nazionali di ripresa e resilienza: sono i programmi con cui gli Stati dell’UE accedono alle risorse del Recovery and Resilience Facility, il cuore dei 750 miliardi del NextGeneration EU. Mentre la presidente Ursula von der Leyen e i commissari assicurano che i primi finanziamenti arriveranno già nelle prossime settimane, i loro funzionari stanno analizzando attentamente i piani, per assicurarsi che i capitoli di spesa siano conformi al regolamento che istituisce il fondo comunitario.
Tra i vincoli che ogni piano deve rispettare c’è quello ambientale. Secondo le regole, almeno il 37% degli investimenti deve essere dedicato a progetti relativi alla transizione ecologica e neanche un euro può essere speso in misure con effetti contrari agli obiettivi ambientali europei, nel rispetto di un principio chiamato do no significant harm (Dnsh).
Ovviamente, sulla carta tutti i Pnrr rispettano queste richieste: la Commissione ha il compito di verificare che calcoli e previsioni dei governi siano corretti. Non si tratta di una mera formalità burocratica, anzi. Secondo una prima analisi del think-tank E3G, quasi nessuno dei piani presentati è davvero in linea con i paletti ambientali richiesti.
Il nocciolo della questione riguarda il conteggio degli investimenti green. Per raggiungere la soglia del 37%, ogni Paese somma tutti quei soldi destinati a finanziare determinate misure in qualche modo connesse alla lotta al riscaldamento globale: contributi per la transizione energetica verso fonti rinnovabili, la mobilità pulita o l’agricoltura sostenibile. Se tali misure contribuiscono nella loro interezza a mitigare gli effetti del cambiamento climatico, i finanziamenti a esse destinati vengono conteggiati al 100%; se contribuiscono solo in parte, al 40%.
L’impatto reale di ogni misura necessita di calcoli estremamente complessi che tengano in conto un gran numero di variabili. Intervenendo su queste variabili, si potrebbe far passare come investimenti ambientali delle misure che in realtà non lo sono, o non lo sono fino in fondo. È quanto emerge dal Green Recovery Tracker di E3G, che cerca di definire la fetta reale di finanziamenti per l’ambiente contenuta in ogni piano. I risultati sono scoraggianti: solo Finlandia e Germania resterebbero sopra la soglia del 37%, con Austria e Belgio vicini a questa cifra. Altri Paesi, come Polonia, Portogallo e Italia, avrebbero compiuto un capolavoro di greenwashing, dichiarando una quota di misure ecologiche molto lontana da quella effettiva. Nel caso del nostro Paese si scende addirittura al 16%, invece del 40% dichiarato dal governo nel Pnrr.
Perché il Recovery Plan italiano non è abbastanza green
Nel rapporto dedicato all’Italia, si evidenziano parecchie criticità. C’è ad esempio la questione dell’Ecobonus, il rimborso al 110% dei costi sostenuti per le ristrutturazioni edilizie che comportino un efficientamento dei consumi energetici. La misura impegna da sola 18,5 miliardi e secondo il Green Recovery Tracker non sono soldi ben spesi: il miglioramento di due classi energetiche è un vincolo poco ambizioso, visto che consente di rimborsare ai cittadini impianti di riscaldamento nuovi, ma sempre alimentati a gas.
Proprio il finanziamento di progetti legati al gas fossile è uno dei punti su cui insiste la relazione. L’Italia spenderà due miliardi e mezzo per rinnovare la propria flotta di mezzi pubblici urbani e veicoli dei pompieri: parte di questi soldi compreranno mezzi alimentati a metano o a idrogeno prodotto utilizzando metano. Al contrario, poco più di un miliardo sui 191,5 in arrivo dall’UE è destinato alla mobilità elettrica, una quota molto bassa anche in comparazione con gli altri Paesi. Quasi il doppio andrà a finanziare l’installazione di pannelli solari, ma solo nei comuni con meno di 5mila residenti: un vincolo che potrebbe limitare di molto l’efficacia della misura.
Tra le voci contestabili ci sarebbe anche la strategia per l’ex Ilva, con il nuovo progetto di acciaieria che mantiene due altiforni a carbone e, al momento, manca di una valutazione d’impatto ambientale e sulla salute conforme alla direttiva UE 2014/52.
L’appunto principale sembra però essere la mancanza di una strategia complessiva per la transizione verde in Italia. I fondi a disposizione sono dispersi in tante piccole misure, con impatti per l’ambiente sì positivi, ma limitati nelle dimensioni. Mancherebbe invece, secondo il rapporto, un robusto piano d’azione per decarbonizzare l’industria e aumentare la produzione di elettricità da fonti rinnovabili.
«I numeri parlano chiaro: il Pnrr del governo Draghi tradisce le promesse di fare del Recovery Plan una rivoluzione verde», hanno commentato in una nota congiunta il coordinatore nazionale dei Verdi italiani Angelo Bonelli e l’eurodeputata di Europa Verde Eleonora Evi.
Anche Legambiente è molto scettica sulle misure ambientali contenute nel Pnrr. Il suo vice-presidente Edoardo Zanchini ha affermato in un recente dibattito sul tema con l’europarlamentare Alexandra Geese che gli interventi previsti porteranno a una riduzione delle emissioni di C02 in Italia modesta: solo il 3% di quanto servirebbe per arrivare all’obiettivo fissato nel piano, cioè -51% entro il 2030.
Gas, agricoltura e idrogeno non pulito
Quello di un Pnrr poco attento all’ambiente è comunque un mal comune di molti Stati. Il problema è stato evidenziato anche dal gruppo dei Verdi/Ale al Parlamento europeo, che con una lettera dettagliata alla Commissione ha esposto le sue principali preoccupazioni.
Il gruppo denuncia una generale sovrastima della spesa green nei programmi nazionali e una violazione molto frequente del principio di non danneggiare gli obiettivi ambientali. Ogni Paese ha le sue spine. Germania e Francia, ad esempio, vogliono finanziare massicciamente l’industria delle auto ibride, che però contribuiscono comunque alle emissioni di C02, anche se in misura minore rispetto ai veicoli tradizionali. Questa scelta, secondo i Verdi, è inammissibile stando alle linee-guida stilate dalla Commissione, visto che i veicoli elettrici al 100% sono considerati l’alternativa migliore in termini di performance ambientali.
Gli investimenti nell’agricoltura di molti Paesi dell’Est (Polonia, Ungheria, Slovenia e Lettonia e Cechia) metterebbero a rischio gli ecosistemi, mentre il piano di rimboschimento redatto da Praga avrebbe persino un impatto negativo sulla biodiversità, puntando su alberi dal legname pregiato in sostituzione di quelli originari. Proprio la protezione delle specie di piante e animali è una delle note più dolenti: in molti piani nazionali, denunciano i Verdi, nemmeno un euro è destinato a progetti legati alla biodiversità.
Un altro lato oscuro molto comune nell’Ue riguarda l’utilizzo dell’idrogeno, una fonte energetica in sé pulita e a zero emissioni. Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Belgio e Italia vogliono incrementarne la produzione, ma in molti casi non si tratta di idrogeno “verde”, cioè estratto grazie a elettricità prodotta da fonti rinnovabili e quindi ecologico al 100%.
Sotto la lente d’ingrandimento sono finiti anche numerosi progetti singoli dei Paesi membri: un gigantesco snodo ferroviario a Tallinn, una centrale per la produzione di idrogeno in Slovenia, una linea di cavi elettrici tra Spagna e Francia che passa troppo vicino a un’area naturale protetta.
Alcune di queste istanze sono emerse pure nel dibattito sul tema tenutosi al Parlamento europeo, che giovedì 10 giugno vota una risoluzione con le sue conclusioni. Secondo il regolamento del Recovery and Resilience Facility, l’Eurocamera deve essere formalmente coinvolta nell’analisi dei piani nazionali, ma nella pratica non ha alcun potere di bocciare i programmi. All’esame di ecologia e sostenibilità ambientale, l’unico voto che conta è quello della Commissione.
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