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Pnrr, i fondi per i Comuni: dove stanno andando e tutte le ragioni dei ritardi | Milena Gabanelli – Corriere della Sera

Entro il 2026 l’Italia riceverà dall’Europa 191,5 miliardi per il Piano nazionale di ripresa e resilienza: 122,6 sono prestiti e 68,9 sono sovvenzioni a fondo perduto. Da soli assorbiamo il 38% di tutto il piano per rilanciare l’economia europea colpita dalla Pandemia. Le condizioni: rispettare rigorosamente le tappe del programma approvato a luglio dall’Unione europea, altrimenti i soldi non arrivano. Il ministro Franco il 23 febbraio ha dichiarato, davanti alle Commissioni Bilancio, Finanze e Politiche UE di Camera e Senato, che le amministrazioni centrali hanno già attivato 149 procedure per 55,9 miliardi di euro. L’Osservatorio Recovery Plan dell’Università di Roma Tor Vergata e della Fondazione Promo PA monitorano come li stiamo spendendo.

Siamo già in ritardo

Finora abbiamo avuto solo scadenze qualitative, riforme e norme, tutte rispettate. Poi arriveranno le scadenze economiche sui progetti da realizzare: 527 traguardi e obiettivi da chiudere entro il 2026, distribuiti su 10 semestri. Per giugno 2022 l’unica scadenza economica è l’assunzione di 168 funzionari nei tribunali per velocizzare i processi. E qui non sono previsti ritardi, mentre sui progetti siamo già fuori tempo. Entro il 2021 dovevamo spendere 15,4 miliardi, a fine febbraio 2022 ne avevamo spesi 5,1. Come li abbiamo usati? 2,5 miliardi di euro sono stati messi nel settore ferroviario; 1,2 per l’ecobonus; 990 milioni per la transizione digitale e 395 milioni per la digitalizzazione della Scuola e la messa in sicurezza degli edifici scolatici. La tappa concordata con Ue per fine 2021 non è vincolante perché riguarda progetti che scadranno nei prossimi anni. È comunque un brutto segnale. Entro fine 2023 dovremo mettere in campo progetti per 27,5 miliardi e 37,4 entro fine 2023. I tre quarti riguardano digitalizzazione, green, e istruzione e ricerca.

Perché l’Italia ha chiesto più prestiti

L’obiettivo del Pnrr è rilanciare la crescita e abbassare il debito pubblico, ma da subito abbiamo dovuto fare un compromesso: dei 122,6 miliardi di prestiti, 51,4 andranno a rifinanziare progetti già in essere prima della pandemia. Fra questi: 15 miliardi per la mobilità sostenibile (compresa l’alta velocità), 0,3 per Ecobonus e Sismabonus, 8,8 per la rigenerazione urbana, 5,5 per la didattica digitale e l’edilizia scolastica, 3,1 come credito d’imposta per la transizione digitale e 3,2 miliardi per la digitalizzazione della sanità. Su queste opere viene cambiata la fonte di finanziamento: da btp e bot a prestiti europei. Una scelta obbligata perché il regolamento del Next Generation all’articolo 10 (241/2021) prevede la sospensione dei pagamenti anche in caso di «squilibri eccessivi» dei conti pubblici. L’Italia, quindi, dovrà continuare a ridurre il deficit pubblico come previsto dal 2010. Sia il governo Conte che il governo Draghi hanno presentato una riduzione al 3% del pil in tre anni. Ed è questa palla al piede che impedisce di finanziare esclusivamente progetti nuovi: il deficit salirebbe ancora, mentre non succede finanziando attività già in corso e con tassi inferiori. Una scelta che secondo l’Osservatorio Conti Pubblici consente di risparmiare in interessi 8,5 miliardi in 20 anni.

Come è andata nel resto d’Europa

Nel resto d’Europa a fronte dei 723,8 miliardi di euro messi in campo dal Next Generation, ne sono stati richiesti 504, soltanto il 70%. La gran parte dei grandi Paesi europei, infatti, ha interessi sul debito più bassi del nostro e prenderà solo le sovvenzioni a fondo perduto, finanziando il resto del rilancio economico emettendo titoli di stato. Solo Grecia, Portogallo, Slovenia, Cipro e Polonia hanno chiesto tutti insieme 43,3 miliardi: un terzo di quello che abbiamo chiesto noi. Vuol dire che per dar vita ad una crescita che per metta di far scendere il debito pubblico, non dobbiamo sprecare nemmeno un euro dei nuovi investimenti.

O rispetti le tappe o si ferma tutto

Il ritardo che oggi abbiamo accumulato sull’avanzamento della spesa rischia concretamente di aumentare per l’incapacità di molti Comuni. Il problema è che il 69% dei comuni ha meno di 1000 abitanti e non ha le strutture tecniche per portare avanti le opere: dalla progettazione, ai bandi, alla realizzazione. Ai Comuni andranno 48,5 miliardi di tutto il piano e altri 14,5 alle Regioni. Ma mentre le Regioni hanno uffici e competenze più strutturate, molti Comuni hanno già chiesto di essere sostenuti nell’ attuazione delle iniziative del Pnrr. Solo a fine febbraio il Mef ha istituito un tavolo di monitoraggio per «verificare che la pioggia di fondi sia ben utilizzata», mentre la Funzione pubblica ha lanciato una piattaforma con Cdp, Invitalia e Mediocredito Centrale per dare supporto tecnico agli enti locali. Sta di fatto che l’Ance ha analizzato 596 progetti presentati da 177 amministrazioni locali, per un totale di 1,2 miliardi di euro. Ebbene l’80% non ha un progetto esecutivo che consente di aprire il cantiere, il 66% ha solo un progetto di fattibilità tecnica ed economica, il 72% dei progetti non è stato aggiornato rispetto agli incrementi di prezzi dei principali materiali da costruzione (qui l’ultimo aggiornamento dell’indagine). Solo due esempi: un Comune in provincia di Bergamo ha chiesto 3 milioni di euro per una riqualificazione dell’edilizia residenziale, ma ha solo un progetto di fattibilità, e uno in provincia di Benevento ne ha chiesti 800 mila per costruire una scuola, ma non ha nemmeno il progetto. L’Ance conclude che i ritardi sull’attuazione del Pnrr saranno inevitabili.

Caos appalti e inflazione

Oggi abbiamo 30.000 stazioni appaltanti. Troppe. Le linee guida sono state approvate da Anac lo scorso 30 marzo, e il sistema di qualificazione diventerà operativo con la riforma del nuovo Codice degli Appalti. Siccome tempo da perdere non ce n’è, sarà inevitabile il ricorso centralizzato alle grandi stazioni appaltanti, che faranno gare grandi alle quali potranno partecipare soprattutto multinazionali, gran parte delle quali non sono italiane. E questo peserà sull’economia del nostro Paese dove il 99,8 % delle aziende ha meno di 250 dipendenti e produce il 58% dell’intero fatturato dell’industria.

(…) per dar vita ad una crescita che per metta di far scendere il debito pubblico, non dobbiamo sprecare nemmeno un euro dei nuovi investimenti.

Si aggiunge il problema dell’inflazione. Solo per le infrastrutture per una mobilità sostenibile, che in tutto valgono 25,4 miliardi, i costi rispetto alle cifre indicate nel Pnrr sono già lievitati di 3 miliardi: 2,4 li dovrà sopportare Rete ferroviaria italiana sulle 19 gare in programma per il 2022 in seguito all’aumento dei prezzari di gennaio, e altri 500 milioni per i maggiori costi relativi alle grandi opere già in corso. Ad un aumento medio del 18% rispetto ai valori indicati nel Piano, va sommato un altro 6/7% con la prevista revisione dei listini dopo gli ultimi rincari. Una revisione che gli altri Paesi europei hanno già fatto, ma noi no. È auspicabile che non si ripeta il brutto film dei Fondi per lo sviluppo e la coesione 2014/2020 (Fas), dove abbiamo speso poco più del 9% dei fondi stanziati.

dataroom@rcs.it

28 aprile 2022 | 06:58

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