Un debito pubblico che a marzo 2022 ha toccato quota 2.755,4 miliardi di euro, con un incremento di 18,9 miliardi rispetto al mese precedente. Un volume di crediti fiscali non riscossi, dal 2000 al 2020, che ha raggiunto ormai i 1.000 mld (lo ha svelato nei giorni scorsi Ernesto Maria Ruffini, direttore generale dell’Agenzia delle Entrate). Un’evasione fiscale che supera ancora gli 80 mld di euro annui, pari a quasi il doppio della media europea. Queste coordinate di finanza pubblica sono da sole sufficienti (seppure nella loro sintesi estrema), a lumeggiare lo stato delle cose fiscali, oggi, in Italia, all’interno della cornice più ampia in cui esso si colloca. Per far fronte alle evidenti criticità, la delega fiscale su cui la maggioranza sta trovando l’intesa è senza dubbio un’opzione importante.
Essenziale, sarà tuttavia l’impostazione di fondo che verrà seguita nel percorso riformista. Essenziali, in particolare, saranno talune scelte di campo, e prima ancora dei loro aspetti di merito sarà cruciale, a ben vedere, la volontà di farle davvero. Riguardo a queste scelte di fondo, nel tempo sospeso del post pandemia e della guerra in Ucraina, appare sempre più evidente anche ai meno attenti che una delle direttrici con cui la riforma fiscale dovrà necessariamente misurarsi è il processo, dalla portata e dalle implicazioni epocali, di transizione ecologica. “Preferiamo la pace o il condizionatore d’aria acceso?”: con questa domanda, efficace e un po’ provocatoria, il premier Draghi ha indicato nelle scorse settimane il punto di interferenza fra crisi geopolitica e climate change. Un punto concretissimo, se è vero, come è vero, che negli ultimi anni, se è calata la spesa per il riscaldamento di case e uffici nella stagione invernale, si è al contempo triplicata quella per il loro raffreddamento nei mesi estivi.
L’evidente impatto della questione climatica nella nostra vita quotidiana, e gli effetti – adattativi e reattivi – che ne stanno derivando, ci stimolano (anzi, ci sfidano) a riflettere, per quanto qui interessa, su quanto accaduto nei decenni passati, anche per cercare nuove rotte.
Per averne congrua contezza, sono sufficienti alcune esemplificazioni. Così, nel modello energetico che è stato dominante nel Secolo breve, la centralità del petrolio ha garantito allo Stato, fra l’altro, importanti volumi di gettito da accise (oggi, sono ben 19, fra cui la più risalente è quella introdotta negli anni ‘30 del Novecento per finanziare la conquista dell’Etiopia). Nel caso della benzina, come noto, il prezzo al consumo si ottiene sommando le accise al prezzo industriale. Su questa somma viene poi applicata l’Iva, con l’effetto di un doppio prelievo fiscale. Nel futuro mix energetico (rinnovabili, geotermia, gas, etc.) prefigurato come punto di passaggio intermedio, prima, e di arrivo, poi, della transizione ecologica, il ruolo del petrolio sarà secondario, se non marginale. Negli scenari a tendere, dal 2030 al 2050, non è anzi previsto, di fatto, alcun ruolo. Da qui, la domanda: che ne sarà del gettito annuo da accise (quasi 24 mld di euro, in Italia, nel solo 2021)?
In secondo luogo, secondo autorevoli associazioni ambientaliste, nel 2020 è stato di 34,6 miliardi di euro il costo totale per la finanza pubblica dei sussidi ritenuti ambientalmente dannosi, suddiviso tra i diversi settori (nel solo comparto dei trasporti, la spesa è stata di 16,6 miliardi di euro, tra sussidi diretti e indiretti). Premesso che questa non è materia in cui sono ammissibili approssimazioni o semplificazioni concettuali, e occorre perciò fare grande attenzione caso per caso, è però dubitabile che – almeno in una fase intermedia – questa spesa sia riducibile o tagliabile “senza se e senza ma”. Piuttosto, appare probabile che essa possa essere uno dei fattori su cui fare leva per sostenere il riorientamento di intere filiere produttive e finanziare riconversioni, nell’ottica della transizione ecologica. Anche in questo caso, si tratta di compiere scelte di fondo, individuando impieghi alternativi per risorse già da tempo comunque impegnate.
Questo tema evoca quello, più ampio, degli incentivi, che ha il suo punto di massima ricaduta nel settore dell’edilizia, specie residenziale. Transizione ecologica, infatti, è anche risparmiare energia, non solo produrne in modo diverso da quello tradizionale. In nome del superiore interesse ad una qualità ambientale che per ragioni oggettive tende a livellare tante disuguaglianze (quanto meno, nell’ambito di una stessa area geografica), alla spinta governativa dall’alto deve infatti unirsi la pulsione dal basso, non solo in forma aggregata (comunità energetiche) ma anche individualizzata (famiglie e imprese). Per essere concreti: ridurre il fabbisogno energetico di un’abitazione o di un ufficio cambiando gli infissi delle finestre dà un contributo alla causa planetaria del contrasto ai cambiamenti climatici. Un contributo, questo, che, se unitariamente considerato sposta poco, può invece raggiungere valori importanti, di ordine sistemico, su base seriale.
Poi, certo, ci sono i furbi. Quelli che ci provano. Che non intendono affatto partecipare al processo di transizione ecologica, ma profittarne per lucrarci indebitamente. Recenti stime sull’ecobonus parlano di 900 milioni di crediti inesistenti, riferiti a interventi edilizi non effettuati o fittiziamente realizzati in favore di persone inconsapevoli. Come in altri settori, questa deriva illecita va eradicata. Senza esitazioni ma anche senza soluzioni improvvisate o cedendo al pregiudizio che cresce all’ombra di una certa occhiuta sospettosità: la strada non è rinunciare o rendere di speciale difficoltà l’accesso all’ecobonus, ma tutelare gli onesti distinguendoli, sempre, dai disonesti. Per fare questo, non basta la delega per la riforma della legislazione fiscale, occorre anche un robusto sistema di giustizia tributaria. Forse provvisto anche di sezioni specializzate sulla fiscalità ambientale, di certo dotato di giudici professionali con formazione e competenza specifica.
Rinnovate scelte di fondo, in campo fiscale, che in ambito nazionale spostano e sposteranno miliardi di euro, a decine. Questo, ci attende. Occorre elaborare in modo pieno e maturo che la transizione ecologica è tema che deve essere parte, e non restare al di fuori, del cantiere della riforma fiscale (la recente controversa vicenda degli extraprofitti, in qualche modo ne dà ulteriore conferma). Per diretto e immediato riflesso, non esistono riforme fiscali destinate al successo se ignorano o non tengono adeguatamente conto del processo, irreversibile, di transizione ecologica.
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