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Se la mobilità sostenibile prende una direzione sbagliata | C. Stagnaro – Lavoce.info

Il Pnrr affronta la questione della mobilità sostenibile all’interno delle missioni dedicate alla transizione ecologica e alle infrastrutture. Lo fa senza un criterio chiaro sulle scelte di destinazione dei fondi. E con un approccio troppo centralizzato.

Come decarbonizzare i trasporti

I trasporti producono circa il 30 per cento delle emissioni climalteranti derivanti da usi energetici nel nostro paese. Nessuna strategia di mitigazione del cambiamento climatico può dunque prescindere da una sostanziale decarbonizzazione del settore. Ma come? Il Piano nazionale di ripresa e resilienza affronta la mobilità sostenibile all’interno delle missioni dedicate alla transizione ecologica e alle infrastrutture, e lo fa con due tipologie di interventi: quelli finalizzati a decarbonizzare il trasporto privato e quelli dedicati a trasferire i trasporti dal mezzo individuale a quello collettivo (e dalla gomma ad altre modalità).

Del primo gruppo fanno parte una serie di investimenti sui carburanti alternativi: idrogeno, biometano e mobilità elettrica. Per quanto riguarda l’idrogeno, il Pnrr destina circa un miliardo di euro al suo utilizzo nei trasporti stradali e ferroviari, oltre a 500 milioni per incentivarne la produzione (senza specificare attraverso quali processi). Allo sviluppo del biometano andranno quasi due miliardi di euro, mentre 750 milioni serviranno al potenziamento dell’infrastruttura di ricarica. In tutti questi ambiti sono anche previste semplificazioni per rimuovere eventuali ostacoli burocratici. In particolare, per la mobilità elettrica viene annunciata una modifica normativa per garantire criteri trasparenti, non discriminatori e contendibili per l’assegnazione degli spazi per le colonnine, come chiesto dall’Antitrust.

Poi ci sono investimenti il cui obiettivo è spostare traffico dal trasporto individuale a quello collettivo o da mezzi inquinanti ad altri puliti: 600 milioni per le piste ciclabili; 3,60 miliardi per il trasporto di massa; 3,64 miliardi per rinnovare le flotte di bus e treni. Da ultimo, le ferrovie fanno l’asso piglia tutto, con ben 24,8 miliardi di euro su un totale di 25,1 allocate nella Missione 3 (il resto, 0,4 miliardi, è destinato all’intermodalità). Così, si prevede la realizzazione di linee ad alta velocità, specialmente al Sud. Non è detto che questi interventi producano gli effetti sperati. Per esempio, uno studio sulle piste ciclabili di Parigi ha trovato che hanno un modesto impatto positivo sul benessere sociale, ma dal punto di vista ambientale molto dipende da circostanze locali: se le piste ciclabili sottraggono troppo spazio alle carreggiate, possono aumentare la congestione e ridurre la velocità media del flusso veicolare, con conseguente aumento delle emissioni. Anche per quanto riguarda le ferrovie la situazione è, per usare un eufemismo, ambigua. Se la domanda di trasporto ferroviario raddoppiasse, le emissioni stradali scenderebbero di appena il 5 per cento, quelle nazionali dell’1,5 per cento, a dispetto delle enormi risorse necessarie a ottenere tale risultato.

Un approccio centralizzato

Nel complesso, insomma, non è chiaro il criterio con cui siano stati allocati i fondi: non c’è (o, almeno, non è resa esplicita) una valutazione del costo implicito di abbattimento delle emissioni attraverso le varie tipologie di investimento. Qual è la ratio di spendere decine di miliardi nell’alta velocità e prevedere solo 11 chilometri di nuove metropolitane?

Inoltre, i due assi di intervento – la decarbonizzazione del trasporto privato e lo spostamento verso quello collettivo – sono in parte complementari, ma nel lungo termine alternativi: più il mezzo individuale diventa sostenibile, meno è forte l’esigenza di trasferire persone e merci dalla gomma al ferro (almeno dal punto di vista ambientale).

L’apparente contraddizione viene esacerbata dalla distribuzione delle risorse con scelte top-down: si rischia di sovra-incentivare talune tecnologie e se ne spiazzano altre (potenzialmente migliori). Da questo punto di vista, sorprende l’assenza dei biocarburanti (tranne il biometano), che possono contribuire – e già contribuiscono – a ridurre sensibilmente le emissioni dei veicoli al motore e rappresentano, con l’idrogeno, l’unica alternativa per gli aerei.

Coerentemente con questo approccio centralizzato, la mobilità sostenibile viene interamente vista dal lato dell’offerta, ignorando possibili interventi e riforme dal lato della domanda. Sarebbe interessante, per esempio, esplorare politiche di altro tipo, come le congestion charge, per fluidificare il traffico urbano, anche sulla scorta delle tante esperienze positive. Tra l’altro, abbiamo un importante precedente proprio in Italia: l’esperienza milanese dell’Ecopass prima e dell’Area C poi. L’imposizione di un prezzo d’ingresso nelle ore di punta ha prodotto una riduzione delle emissioni e un incremento dell’uso delle modalità di trasporto alternative, tra cui la bicicletta.

In sintesi, il Pnrr può essere descritto come il tentativo di trovare un equilibrio tra finanziamenti e riforme: la mobilità sostenibile è fortemente sbilanciata sui primi.

Link all’articolo Originale tutti i diritti appartengono alla fonte.

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