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Transizione automotive: un fondo da 1 miliardo basterà per salvare il comparto? È un regalo a Stellantis come dicono alcuni? – Industria Italiana

Basterà un fondo da 1 miliardo per riportare all’età dell’oro il comparto italiano dell’automotive? I dettagli sono ancora da perfezionare, ma è questa la cifra messa sul piatto dal governo per soccorrere un’industria che occupa 165.676 persone e che nel 2021 ha visto un calo delle immatricolazioni del 24% con una perdita di produzione del 9,4%. Il fondo unico da 1 miliardo, che dovrebbe avere una durata almeno triennale, sarà lo strumento tramite cui si sosterranno la riconversione della filiera dell’auto, che vira sempre più verso l’elettrico, e il rifinanziamento dell’ecobonus. È ferma l’intenzione di sostenere i produttori italiani, e al contempo di incentivare anche una parte di modelli diesel e benzina Euro6.

«Al di là della partita bonus auto, negli ultimi due anni abbiamo assistito a una crescita esponenziale della richiesta di veicoli elettricicommenta il senatore Gilberto Pichetto Fratin, vice ministro MiseLa nostra filiera assomma 2.200 imprese con 60mila occupati e 50 miliardi di fatturato. Ma complessivamente parliamo di un sistema che ha un giro di occupazione di 1 milione e 200mila persone. Se pensiamo al cambiamento che ci accompagnerà nel prossimo decennio, l’effetto sugli occupati del meccanico investirà 200mila lavoratori. E si avranno conseguenze anche nel settore riparazioni e per i 25mila distributori sparsi per il Paese».

Com’è noto, il disegno della Commissione Europea è quello di fare del Vecchio Continente il primo ad impatto climatico zero. Un particolare pacchetto del Green Deal (Fit for 55) prevede la riduzione del 55% delle emissioni delle automobili entro il 2030, e zero emissioni entro il 2035. Non si venderanno più motori termici, né ibridi. Solo total green. Questo passaggio, però, è destinato a lasciare cadaveri sul campo di battaglia. Anzitutto i carmaker si sono esposti finanziariamente, ma è difficile che possano ottenere un Roi se non in tempi lunghissimi. Questo comporta una sostanziale ristrutturazione dell’industria di comparto, che avrà senz’altro meno dipendenti. Di questo, e molto altro, si è parlato durante la presentazione del report “E-mobility Industry survey – La transizione della filiera della mobilità e il ruolo delle politiche industriali” a cura di Motus-E, Anfia, Anie Federazione, Ancma e dell’Università di Ferrara.

Non c’è automotive senza politiche industriali

Andrea Bianchi, segretario generale al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali

In Italia a rischio sono soprattutto i componentisti auto, un vero pilastro della manifattura made in Italy (che, come abbiamo detto più volte, si regge su componentistica auto, siderurgia, macchinari e chimico-farmaceutico), dal valore ormai superiore a quello dell’industria automobilistica propriamente detta. Nel 2020 questi hanno fatturato, in Italia, 45,6 miliardi, con 160mila dipendenti; l’anno prima, però, i numeri erano questi: 50,8 miliardi e 164mila dipendenti. Si diceva delle stime del Mise: le aziende che potrebbero scomparire valgono il 17% della quota dipendenti e del mercato nazionale. «La nuova auto è al centro della transizione digitale per gli effetti che ha sull’innovazione tecnologica: non solo è uno degli strumenti per la lotta ai cambiamenti climatici, ma sta anche definendo nuovi modelli di consumo e di utilizzo della mobilità medesima – sottolinea Andrea Bianchi, segretario generale al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – come Ministero del lavoro, il nostro obiettivo consiste nell’agganciare le politiche del lavoro a quelle industriali. E per questo ci stiamo muovendo su più fronti. Innanzitutto vogliamo riformare il sistema degli ammortizzatori sociali, per far sì che supportino meglio questi processi di transizione. Infatti abbiamo introdotto due strumenti nuovi: la cassa per transizione e gli accordi per la transizione occupazionale, che possano accompagnare gli investimenti e le trasformazioni che avvengono sia all’interno delle imprese, che vogliono innovare i propri processi produttivi – quindi la cassa per transizione – sia favorire la mobilità tra settori e imprese necessaria in fase di grandi trasformazioni. La cassa per transizione occupazionale è uno strumento nuovo che tende ad accompagnare i percorsi di mobilità dei lavoratori tra aziende e tra settori, agganciando a questo tipo di ammortizzatore sociale un’attività molto più forte di accompagnamento dal punto di vista della formazione».

Linea robotizzata alla Tesla
Linea robotizzata alla Tesla

Stando al report di Motus-E, il ricorso alle opportunità offerte dalle politiche industriali è piuttosto frequente (61% degli intervistati), soprattutto tra le imprese di media e grande dimensione (72% e 84% rispettivamente). E lo è in particolare tra le imprese nell’ambito dei materiali (100%), dei ricambi (67%), e della componentistica (70%) a tutti i livelli di fornitura (68-80%), ma è meno frequente tra Oem (56%) e assemblatori (55%). Ma non sempre le opportunità offerte dalle politiche industriali sono di concreto supporto alla transizione: complessità di rendicontazione, tempi di erogazione di contributi e risorse, come anche i molteplici obiettivi perseguiti non favoriscono la riconversione. La capacità di intercettare le opportunità offerte dai programmi di politica industriale sembra essere un altro fattore rilevante per la transizione della filiera. Oltre il 90% dei rispondenti che più rapidamente si stanno ri-specializzando nella mobilità elettrica, infatti, dichiara di avere unità o risorse umane dedicate a questo scopo. La percentuale si attesta intorno al 50% nei gruppi di rispondenti che si sono affacciati alla filiera con l’elettrificazione, mentre scende al 30% per le imprese specializzate per le quali il business della mobilità non è rilevante. Molto più importante per la transizione appare la destinazione degli strumenti messi a disposizione dalla politica industriale. I rispondenti che si stanno ri-specializzando più velocemente, ad esempio, si distinguono per destinazioni come R&S (100%), innovazione (88%), e formazione (63%). Ciò sembra sottolineare come produzione di conoscenza, avanzamento tecnico e know-how siano aspetti fondamentali della transizione.

L’utilizzo degli strumenti di politica industriale. Sta: imprese specializzate transizione avanzata. Stl: imprese specializzate transizione lenta. Eta: imprese entranti nella transizione avanzata. Etl: imprese entranti nella transizione lenta

«Non dobbiamo dimenticare che gli ammortizzatori devono essere agganciati a una politica della formazione sviluppata su tre livelli – continua Bianchi – I primis l’ingresso di nuove professionalità, dato che le nuove tecnologie richiedono nuove professioni e competenze. È necessario uno sviluppo duale della formazione, che favorisca l’apprendistato e l’ingresso in azienda di figure tecniche. In secundis dobbiamo occuparci della riqualificazione degli occupati. La trasformazione delle aziende, infatti, richiede un cambiamento del mix professionale che deve riguardare anche chi è già occupato. Abbiamo rifinanziato il fondo nuove competenze, così sarà possibile creare opportunità di confronto per orientare il fondo verso imprese che stanno effettuando cambiamenti sostanziali del processo e del prodotto. Infine, è nostra intenzione favorire la transizione dei lavoratori da una realtà all’altra, per metterli nelle condizioni di rientrare nel mondo del lavoro. A mio avviso la partita principale si gioca sulla riqualificazione delle competenze professionali: ben venga una valorizzazione degli Its non solo per i giovani, ma anche per il reskilling dei lavoratori che in questo modo possono rientrare all’interno del ciclo produttivo».

L’utilizzo degli strumenti di politica industriale. Sta: imprese specializzate transizione avanzata. Stl: imprese specializzate transizione lenta. Eta: imprese entranti nella transizione avanzata. Etl: imprese entranti nella transizione lenta

I problemi dell’automotive italiano…

Il nuovo centro logistico Stellantis di Rivalta

Anzitutto esistono dei problemi strutturali: la transizione verde non è soltanto una questione del diverso tipo di energia utilizzata per la trazione, ma è soprattutto un tema tecnologico: implica nuove competenze, e un modo differente di costruire l’auto. Anche perché il green si incrocia con il self-driving, e quindi con i sensori radar e lidar, con la connettività, e con l’elaborazione real time di flussi di dati. Anche i dealer stanno mutando: sempre più si compra in rete, e pertanto la loro attività si sposta verso la manutenzione e la riparazione. Il fatto è che non tutte le filiere sono pronte per un cambiamento così radicale. In questa situazione si sono inseriti lo shortage e l’irreperibilità dei microchip, che hanno causato una perdita molto importante di produzione. D’altra parte, quella dell’automotive è una supply chain molto “tirata”, che si fonda sul “just in time”. Quindi, se mancano dei componenti, si ferma tutto perché’ c’è pochissima scorta in magazzino. Sono state immaginate, e talora messe in atto, soluzioni alternative, tipo reperire chip dai distributori, produrre meno auto a miglior margine, o incomplete (da terminare successivamente).

I freni in carbonio Brembo utilizzati da Ferrari

Queste strategie hanno solo mitigato l’impatto negative sui carmaker. Oltre a ciò, si sono aggiunte la carenza e l’aumento dei prezzi di altre materie prime, come il rame per l’elettronica, l’allumino per le scocche o il Litio per le batterie. In alcuni casi, come per l’acciaio, non c’è una ragione di mercato, se non speculazione; per altri materiali il problema è più strutturale. Infine c’è il problema del reperimento della manodopera che in alcuni paesi scarseggia dopo la pandemia. Per non parlare del problema che riguarda le infrastrutture di ricarica e lo storage. «La specificità delle competenze, che va ad allungare la filiera, è cambiata – dichiara Omar Imberti, coordinatore del Gruppo E-Mobility Anie Federazione – Il mercato sta crescendo: ciò richiede un ampliamento di know how delle nostre aziende, che tocca anche il mondo dell’elettrotecnica. Questo porterà all’aumento della competitività, anche perché è l’intero mercato che si evolve. È necessario avere una strategia ben definita, e le risorse grazie anche al Pnrr ci potrebbero essere. Servono incentivi per la parte infrastrutturale: quelli per l’automotive devono essere interventi visti nella loro globalità».

… e i suggerimenti per risolverli

Gli interni della Maserati MC20

Nuovi progetti di R&S e nuove linee di produzione risultano le priorità su cui i rispondenti concentrerebbero le opportunità offerte da una nuova generazione di politiche industriali. E lo farebbero soprattutto a condizione di un quadro regolatorio stabile e maggiore liquidità da dedicare alle attività di R&S e agli investimenti. Risultano inaspettatamente meno prioritaria la formazione delle risorse umane e meno problematica la mancanza di competenze. Ciò sembrerebbe in contraddizione con quanto quanto emerge dallo stato dell’arte. Preferiamo però pensare che questa apparente incongruenza aiuti a mettere a nudo alcuni aspetti sostanziali. Il primo è che le criticità connesse alle skills e alla forza lavoro sono più un fatto di quantità che di qualità. E che il compito di produrre questa quantità sia ritenuto, innanzitutto, in capo al sistema dell’istruzione e della formazione professionale. Il secondo è che la transizione sta forse andando verso una fase in cui consolidare gli sforzi fatti negli anni recenti prima di approcciare una nuova ondata di sviluppo. Che si tratti di tecnologia, capitale fisico, o capitale umano, bisogna saper attendere per vedere il frutto degli investimenti. Ciononostante, la transizione della filiera dalla mobilità tradizionale alla mobilità elettrica continua e, addirittura, si intensifica, senza lasciare tempo al tempo. Sembra pertanto cruciale immaginare strumenti di politica industriale capaci di incalzare il cambiamento, e di farlo con continuità e costanza anche orientandosi verso progetti maggiormente operativi e di più breve periodo.

Mercedes Benz cockpit interior details cabin

«Dobbiamo focalizzarci sulla parte della filiera che sta investendo sull’elettrico- commenta Fabrizia Vigo, Responsabile Relazioni istituzionali Anfia – muovendoci su due parallele. La prima riguarda la parte di filiera – circa 70% – che potrebbe non trovare spazio nella transizione della mobilità elettrica, e che deve essere supportata per raggiungere la competitività che merita. Le aziende chiedono strumenti meno complessi, procedure più semplici, pagamenti veloci in linea con gli altri progetti europei. Strumenti certi e di lungo periodo: non possiamo cambiare le percentuali del credito d’imposta ogni anno! Il secondo punto riguarda le nuove linee produttive, per cui è fondamentale mantenere un importante centro di ricerca e innovazione per produrre questi componenti: bisogna trovare uno strumento per far sì che su tutto il territorio nazionale investa per produrre queste tecnologie».

L’industria delle due ruote: in Italia più gigafactory

Energica Motor

Sono diverse le peculiarità che contraddistinguono l’industria delle due ruote: si tratta di aziende di minori dimensioni, meno strutturate, per lo più pmi spesso non integrate all’interno delle grandi piattaforme. «Un tema particolarmente rilevante per le due ruote è quello delle batterie: gli accumulatori sono il cuore del veicolo elettrico, e possono pesare anche il 40% del peso di una moto – chiosa Michele Moretti, responsabile settore moto e relazioni istituzionali Ancma – Ciò influisce enormemente sulla guidabilità del mezzo. Per essere all’avanguardia, è necessario che l’innovazione tecnologica sia anche a casa nostra: portare in Italia le gigafactory, per avvicinarle al produttore, è fondamentale. Altrimenti il rischio è che si crei una competizione sull’accaparramento di alcune parti. Le misure sul tavole sono riformate tenendo conto delle esigenze delle pmi. Troviamo molto presente il credito d’imposta, ma questo presuppone che sia fatto un investimento. E spesso è un problema: servono finanziamenti e accesso al credito. In ottica di revisione delle politiche industriali le istituzioni ne devono tenere conto».

La transizione della filiera della mobilità: per il 65% dei componentisti l’elettrico non è un business rilevante

Stabilimento Landi Renzo, Corte Tegge, Cavriago (RE), Vista sulle linee di produzione dei componenti elettronici

L’elettrificazione della mobilità è uno dei pilastri della lotta al cambiamento climatico su scala globale. Il pacchetto della Commissione europea “Fit for 55” ha avanzato la proposta di immettere in circolazione esclusivamente autoveicoli e veicoli commerciali leggeri a emissioni zero a partire dal 2035. Tale strategia rappresenta una sfida industriale enorme per un continente leader nella produzione di mezzi di trasporto. Ma rappresenta anche una sfida culturale per una società che si appresta ad apprendere un nuovo modo di intendere la mobilità. Sebbene le vendite di veicoli elettrificati abbiano sperimentato un aumento di oltre il 150% nel primo semestre 2021 rispetto agli anni precedenti, infatti, il parco elettrificato rimane ancora contenuto. Nel 2018, ad esempio, in Italia, le automobili a batteria (Bev) e ibride plug-in (Phev) rappresentavano solo lo 0,05% del parco circolante esistente, mentre i veicoli a due ruote elettrici raggiungevano lo 0,02% dei motocicli e ciclomotori. A livello industriale, l’analisi di impatto della transizione alla mobilità elettrica della filiera europea evidenzia un rischio concreto e incombente di una significativa riduzione della forza lavoro che risulta fondamentale mitigare soprattutto in paesi come l’Italia, dove la filiera allargata della e Mobility offre uno straordinario potenziale di sviluppo. Molte imprese di piccola e media dimensione sembrano non aver ancora potuto o scelto di affrontare la transizione verso la mobilità elettrica.

Twingo Electric

Tra i rispondenti specializzati nella filiera tradizionale per cui il business della mobilità elettrica non è ancora rilevante, le piccole e le medie imprese sono rispettivamente il 30 e il 48%. Molto dinamiche, invece, appaiono le micro imprese che rappresentano il 25% dei rispondenti che si stanno rapidamente ri-specializzando e addirittura l’80% di quelle (anche nuove) che si sono di recente affacciate alla filiera della mobilità contribuendo in modo sostanziale alla transizione. Gli Oem rappresentano oltre il 40% dei rispondenti che stanno avanzando più rapidamente verso la transizione. Inoltre, le imprese di servizi (inclusi quelli connessi alle forniture elettriche) rappresentano oltre il 40% dei rispondenti che sono entrati nella filiera della mobilità proprio sull’onda dell’elettrificazione. Per i fornitori di secondo e terzo livello, invece, la transizione sembra non aver ancora acquisito una rilevanza sostanziale. Il 65% dei rispondenti specializzati nella mobilità tradizionale per i quali quella elettrica non rappresenta ancora un business rilevante sono imprese della componentistica. Ma quest’ultime rappresentano anche il 33% dei rispondenti che si stanno ri-specializzando più rapidamente. Ciò mostra quanto, proprio nell’ambito della componentistica, la transizione verso la mobilità elettrica sia un processo complesso e articolato che evolve a velocità diverse. Da notare, inoltre, come l’elettrificazione della mobilità abbia aperto le porte della filiera a nuovi assemblatori, soprattutto nei settori bici, moto e nautica

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