Trasporti pubblici gratuiti. L’ultima tentazione su cui il governo Draghi non ha fatto in tempo a riflettere, potrebbe ripresentarsi all’alba di un nuovo esecutivo, se il caro-inflazione continuasse a martellare i consumi. L’esempio lo ha dato il governo spagnolo, disponendo la gratuità dei trasporti ferroviari locali e di media distanza, da settembre a dicembre. Ma prima ancora la Germania, che ha introdotto il biglietto mensile di 9 euro, da giugno a settembre. Nel nostro Paese, oltre agli annunci del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, il primo decreto Aiuti ha sfornato un buono da 60 euro per gli abbonamenti per i servizi Tpl, regionale e interregionale e per i servizi di trasporto ferroviario nazionale, per redditi fino a 35 mila euro. I 79 milioni stanziati coprono solo il 16,45% della spesa complessiva per l’acquisto di abbonamenti nei circa sette mesi della misura. La copertura totale avrebbe sfiorato i 500 milioni.
Ma la misura aiuterebbe davvero le categorie più deboli? L’indagine «Aspetti della vita quotidiana» dell’Istat ci dice che le persone con almeno 14 anni che nel 2019, prima del crollo della domanda dovuto alla pandemia, utilizzavano autobus, filobus e tram erano quasi 13 milioni, di cui 5,8 almeno qualche volta alla settimana. Questi ultimi, cioè gli utenti abituali, erano solo il 13% della popolazione di riferimento. Il dato, pur non tenendo conto dei pendolari che si spostano sui treni regionali, fotografa un Paese che predilige la macchina. Lo conferma l’indagine dell’Isfort: nel 2019 su 100 spostamenti medi giornalieri (feriali) il 62,5% sono stati effettuati con l’automobile e solo il 10,8% con un mezzo pubblico (inclusi taxi e car sharing).
Certo, si dirà, se il costo del biglietto o degli abbonamenti venisse ridotto o azzerato, gli utenti aumenterebbero, e ne gioverebbe anche l’ambiente. Ma gli esperimenti già effettuati, spiega il recentissimo Rapporto del ministero della Mobilità sostenibile, «Verso una nuova mobilità sostenibile», dimostrano che l’elasticità è significativa, ma sotto l’unità nel rapporto tra la domanda di trasporto pubblico e il suo costo all’utenza. Ed è altrettanto chiaro che la riduzione del prezzo del biglietto può comportare cambi di comportamento prevalentemente in chi ha un’alternativa, dunque non nei meno abbienti.
Ma quanto costa viaggiare in Italia sui mezzi pubblici? In base ai dati esposti nel Rapporto Mims e raccolti nelle principali città italiane ed europee e ai dati dell’Ocse sul reddito procapite nelle città, in Italia le tariffe di una corsa semplice sono molto più basse rispetto alla media europea. Solo Milano ha un prezzo superiore alla mediana delle città considerate (ma è stato annunciato un aumento del prezzo del biglietto da 10 a 30 centesimi entro il 2022). Ma se si rapportano i prezzi al reddito medio, le principali città del Centro Nord presentano biglietti relativamente economici, mentre in alcune città del Mezzogiorno le tariffe lo sono meno. Allo stesso modo, secondo uno studio di Banca d’Italia del 2020 di Mocetti e Roma, a fronte di un costo del biglietto che è di circa il 15% più basso nel complesso dei Comuni capoluogo di Provincia del Mezzogiorno, il Pil pro capite nell’area è pari al 55% di quello del Centro Nord.
A questo va aggiunto il dato dell’evasione, che è più elevata a Roma e in alcune città del Sud, mentre è più contenuta nei grandi Comuni settentrionali, come Bologna, Firenze, Genova, Milano, Torino e Venezia. A livello nazionale, Asstra la stima in oltre 400 milioni all’anno, oltre il 10% del complesso dei ricavi da traffico.
Ma se proprio nelle città dove il reddito è più basso, i biglietti, quando vengono pagati, costano di più, prima di rendere gratuito il servizio, si può aumentare l’efficienza. Il Fondo Nazionale dei Trasporti (Fnt) copre già il 48% dei fabbisogni nazionali, un ulteriore 18% viene dalle risorse locali, mentre il 34% deriva dalla vendita dei biglietti. Ma per il Mezzogiorno il Fnt rappresenta quasi il 70% delle risorse a copertura del fabbisogno. Significa che quella mobilità è già a carico della fiscalità generale. Quanto ai bilanci, se più di una società su dieci in Italia ha un utile di esercizio negativo, tale proporzione è due volte più grande per le società che operano al Sud. Al Sud l’affidamento del servizio quasi mai è fatto attraverso gare e il metodo applicato è quello del «gross cost», in cui la remunerazione dell’operatore non è influenzata dalla domanda. Non sarebbe più giusto pretendere efficienza prima di considerare il Tpl un’attività che non può stare sul mercato?
Link all’articolo Originale tutti i diritti appartengono alla fonte.
I commenti su questo articolo non dovranno contenere quesiti di natura tecnica.